giovedì 26 ottobre 2017


 
Capitolo VII

 

(trascrizione a cura di Giovanni Lo Presti, Salvatore Salmeri e Massimo Tricamo)

 

 

Continua l’annotazione di civili morti e feriti A 21 decembre fu disparata una bomba dal forte nel Purracchito. Diede nella casa di maestro Antonino D’Amico, posta nel Borgo a dirimpetto della chiesa di Santa Caterina, nella quale casa si ritrovava Giovanna, moglie del sudetto D’Amico, con molti figli e col padre della medema. E non solamente si precipitò tutto il tetto, pure il solaro fatto di gisso con travi, rompendosi inoltre la porta di pietre e legname d’innanzi. E solo restò ferita la sudetta Giovanna nel piede ed offesa nelli reni, che fra pochi giorni si guarì. E si attribuì a miracolo non avendo successo danno notabile, poiché detto solaro si precipitò sin nel suolo in pezzi, alcuni di più d’un cantaro.

Ed il peggio fu che gli soldati tudeschi, osservando la casa fracassata - e quei poveri chiedendo pietà ed aiuto affine di togliersi di sotto la fabrica, legname e canali - principiarono a far il sacco svelatamente del mobile disfatto in detta casa. E se non avesse inviato tutta la sua guardia il signor generale Paraith, tedesco, qual abitava puoco distante, per certo avrebbe seguito il latrocinio.

 

Muore Stefano Firmanò, colpito assieme al nipote da una palla di cannone sparata dal fortino della Tonnara, mentre si accingevano ad andare a messa A 26 decembre. Fu disparata una palla di cannone dal forte della Tonnara ed uccise di subito a Stefano Farmanò, marinaro. E ferì per intiero una gamba, con parte della coscia, a Domenico Impallomeni nepote del Farmanò. Quali si retrovavano dietro la porta della chiesa di Gesu e Maria la Vecchia, avendosi conferito per udir la messa: e per aversi retrovato la porta serrata della chiesa per accidente, non puoterono evitare tal infortunio, benché avessero entrambi due osservato che nel detto fortino s’avesse dato fuoco al cannone. Il Farmanò fu nell’istante sepolto e  l’Impallomeni, doppo molto cura tagliata la parte offesa e macellata, scampò la morte, caminando doppo molti mesi colle stampelle ed una gamba di legno.

 

Colpito a morte, ai piedi del bastione di Santa Maria, un marinaio napoletano. Ad ucciderlo, una palla di cannone sparata dal fortino della Tonnara A dì [segue lacuna nella copia, ndr]. Un povero marinaro napolitano descendeva dal Regio Castello e, nell’uscire che faceva dal Castello della porta di Santa Maria sotto il bastione, restò di subito ucciso con una palla di cannone disparata dal forte della Tonnara. E nell’istante sepolto nella chiesa di Santa Maria la Catena.

 
Altra pianta sulla Battaglia di Milazzo del 15 ottobre 1718 (archivio privato) 
 


Milazzese rischia di perdere un braccio, ferito - sotto il forte di S. Elmo - da un proiettile verosimilmente avvelenato sparato dal fortino della Tonnara A dì [segue lacuna nella copia, ndr]. Ritrovandosi Vincenzo Caravello, povero tra vagliatore, nella ripa del mare sotto il bastione di Sant’Elmo, raccogliendo esca per pescare, fu osservato dalli Spagnuoli nella Tonnara e gli fu disparato di mira uno schioppo, talmente che restò ferito con una palla nello braccio destro. E benché s’avesse lui medemo tolto la palla, nondimeno stiede in cura di Pietro Guerrera, chirurgo espertissimo, per lo spazio di quattro mesi e puoco faltò [mancò, ndr] che non s’avesse tagliato il braccio, per aver dato principio di cancrena. Non perciò restò offeso e si discorse che la palla fosse stata avvelenata.

 

Giovanni Nobile viene colpito, presso la chiesa di Santa Maria di Porto Salvo, da una palla di cannone lanciata dal fortino della Tonnara. A causa dell’amputazione del braccio muore dissanguato A dì [segue lacuna nella copia, ndr]. Il signor Giovanni Nobile del fu dottor Giuseppe, gentiluomo della città, sempre stiede con molta cautela, guardandosi del disparo delli cannoni e bombe del nemico spagnuolo. Anzi mai si partì d’innanzi la sua abitazione, qual era nel piano della chiesa di Santa Maria di Porto Salvo dalla parte di dietro. Ed in detto giorno, la mattina, ritrovandosi con il signor Don Antonino Lombardo di Don Saverio nel piano, fu disparata una palla di cannone dal forte della Tonnara, avendo dato in un muro del Palazzo di Baeli. E scagliatosi detto muro con la veemenza della palla, si precipitò una pietra, colla quale corsa più e più passi restò ferito detto signor di Nobile nel braccio, remasto assieme con la mano tutto macellato e rotto. Perloché fu necessario tagliarlo il chirurgo, ma non puotendosi in nessun modo togliere la quantità del sangue morì la notte svenato. E la mattina seguente fu sepolto nel convento del Carmine.

 

Affondamento al Capo di una barca colpita da una palla di cannone proveniente dal fortino dell’Albero A dì [segue lacuna nella copia, ndr]. Con una palla di cannone disparata dal forte dell’Albero fu profondata nel mare una barca che si retrovava nella ripa del mare, in un scaro del Capo di questa. Perloché molt’altre, osservato il pericolo, s’allontanarono da detto scaro, volendo conservarsi illese.

 

Morte di un marinaio napoletano mentre ascolta genuflesso la messa nella chiesa di San Giacomo. Ad ucciderlo una palla di cannone proveniente dal forte di S. Giovanni A dì [segue lacuna nella copia, ndr]. Un povero marinaio napolitano, stando genuflesso nella chiesa di San Giacomo udendo messa, fu disparata una palla di cannone dal forte di San Giovanni, con aver dato in un muro dentro detta chiesa: e con la veemenza della palla sudetta si scagliò una pietra, la quale colpì al marinaro e di subito l’uccise. E così non uscì più dalla chiesa per esser stato in quella sepolto.

 

Una bomba lanciata dal forte di S. Giovanni centra una casa al borgo ed uccide Giuseppa Falcone e la moglie di Vincenzo Raimondo, mentre una nipote di questi ultimi, rimasta ferita, muore alcuni giorni dopo  A dì [segue lacuna nella copia, ndr]. Fu disparata una bomba dal forte di San Giovanni. Diede nella casa di Giuseppa Falcone - del fu maestro Natale - posta nel Borgo, sopra il convento di San Domenico. Ove pure con essa di Falcone albergava maestro Vincenzo Raimondo con Rosana, sua moglie, e Giovanna, loro nepote e figlia del fu maestro Giuseppe. Ed avendo fracassato tutta la casa, specialmente il tetto, uccise di subito alla detta di Falcone, senza ferita alcuna, solamente colpita con un canale nelle tempie. Come pure alla detta Rosana Raimondo, quale tutta restò fracassata nel corpo e deformata nella faccia. Ed inoltre la sudetta di Granata [la nipote Giovanna, ndr] restò ferita in più parti dalle pietre e canali. Le prime due morte si sepellirono di subito nella chiesa de’ Padri Domenicani; e l’altra trasportata dall’avo nella parte inferiore della città, ove si ricoverò per necessità. Doppo alcuni giorni pure morì per dette ferite.

 

Una bomba distrugge una conceria di pelli in prossimità del convento del Carmine, dove viveva Antonino Lo Monaco con la famiglia, la cui figlia Flavia rimane ferita ad una gamba curata col balsamo di Pietro Guerrera A 18 gennaro 1719. Fu gettata una bomba dal forte nel canneto del signor Don Marcello Cirino, nella concaria [conceria, ndr] di pelli posta nel quartiero di sotto il convento del Carmine,  nella quale abitava maestro Antonino Lo Monaco con tutta la sua fameglia. E con tutto che avesse devastato e fracassato sudetta concaria, solamente ferì a Flavia, figlia del detto di lo Monaco, relitta vedova del fu Giacomo Castelli, con averli tolto tutta la polpa d’una gamba senza toccar l’ossa. Ma questa doppo fu guarita dal signor Pietro Guerrera col suo balsamo trascorsi alcuni mesi.

 

Ancora morti e feriti nell’odierna via Ryolo di Fontanelle, allora «vanella di S. Giacomo». Barca elogia l’operato dell’aromatario Pietro Guerrera, che con un balsamo da lui preparato medicava molti feriti, senza pretendere alcun compenso. A dì [segue lacuna nella copia, ndr]. Entrò nella casa del signor Don Giuseppe Parra e Martino, posta nella vanella di San Giacomo vicino la chiesa di Giesù e Maria la Nuova, una bomba, con avere crepato in detta casa, retrovandosi in essa molte persone. E furono uccisi Giuseppe e Giovanna Sisinni, marito e moglie, li quali abitavano nelle stanze di sotto col detto di Parra, avendo lasciato in abbandono quelle di sopra per timore delle palle e bombe. E pure li detti di Sisinni restarono entrambi due affissi al muro, che recarono grandissima meraviglia a chi l’osservò. Anzi, avendo concorso a questo spettacolo molte altre persone convicine nella detta casa, di nuovo in quella crepò altra bomba e ferì molt’altre persone gravemente e, tra l’altre, ad Isabella Micali e Sciala, moglie di Teodoro Sciala, con un loro figliuolo nominato [segue lacuna nella copia, ndr] e pure un altro nepote delli sudetti. Essa Isabella col nepote, doppo aversi medicato per più e più giorni colla cura del sudetto Pietro Guerrera, si riavettero, ma il figlio, per essere stato molto malamente colpito nel capo, per onde tutto l’osso si scompose, stiede per otto giorni senza né aprire gli occhi, nemeno parlare. Alla fine si guarì, con aversi levato dalla testa un solo pezzetto d’osso, quando che tutto il cranio era macellato, avendosi bensì medicato per lo spazio di mesi tre continui sotto la cura del medemo di Guerrera col suo balsamo.

Il quale in tutta questa guerra, col grande suo studio e con la prattica di più e più anni, e parimente con un balsamo da esso composto, operò meraviglie, per non dir miracoli. Poiché in tutte le ferite che medicò mai in esse fece apparire sangue putrefatto o marcime, per virtù del suo balsamo. Per certo, doppo la sua morte, che poi seguì nel fervore della guerra a 14 aprile 1719, molti cittadini - o feriti o con parotide maligne, o per altre infermità - morirono per defetto di chirurghi, non essendovi in città che esso solo. Perloché fu lacrimata la sua morte da tutti in generale, per essere stato chiamato refrigerio delli poveri. E con giusta ragione. Poiché non solo medicava gratis a tutti - e principali e cittadini, e plebei - senza mercede o lucro alcuno, pure li dispensava senza pagamento gli medicamenti. E tutti quei che andavano alla sua speziaria, essendo il megliore aromatario della città, con ogni liberalità somministrava agli infermi e feriti ed ova ed ogn’altra cosa necessaria, senza pagamento alcuno. Ed il peggio è che in avvenire molto si paterà, non essendovi chi esercita tal mestiero.

 

La casa di Pietro Buccafusca - ristrutturata dopo un primo attacco - viene distrutta da una bomba. Sua figlia rimane miracolosamente illesa perché trova riparo sotto una sedia A dì [segue lacuna nella copia, ndr]. Nella casa del menzionato maestro Pietro Buccafusca, quale restò disfatta per la bomba che in essa crepò sotto li 6 decembre passato, perloché dal detto di Buccafusca - dal tempo che successe il caso - s’abbandonò la detta casa. Anzi si fecero le porte per esserli state derubate dalli tudeschi, assieme con la scala di legname, lasciandosi il remanente del mobile. Ma, proseguendo gli soldati nella notte ad ascendere per le fenestre in detta casa, fu forzato accommodarla ed in essa di nuovo albergare. Ed in questo giorno di nuovo entrò altra bomba nella medema casa, nella quale per accidente si retrovava solamente una sua figliuola nomata [lacuna nella copia, ndr]. E crepata la bomba si disfece il tetto, ma per fortuna retrovandosi uno stipo di notaro con tutte le scritture publiche poste per conservarsi, nel precipitarsi a terra detto stipo, per causa di detta bomba, diede sopra una sedia, la quale servì di riparo alla povera figliuola che si retrovava di sotto, tanto che restò illesa. Altrimente sarebbe stata uccisa dalli canali e legnami che si precipitarono tutti a terra. Bensì fu vuopo dissotterrarla semiviva da detto luogo con alcuno travaglio.

 

Bomba lanciata dal forte del “Purracchito” distrugge la casa del sacerdote Andrea La Rosa, in prossimità del bastione di S. Maria, dove alloggiavano civili e militari rimasti tuttavia illesi A dì [segue lacuna nella copia, ndr]. Altra bomba disparata dal forte nel Purracchito entrò su l’alba in casa del sacerdote Don Andrea La Rosa, posta nel quartiero di sotto il bastione di Santa Maria, nella quale albergava maestro Francesco Perrone in una stanza ed in un’altra molti tedeschi colle mogli e servitù. Ed avendo crepato la bomba nella stanza del Perrone, ove allora giaceva questi con la moglie e quattro figli tutti in tre letti, non solamente cadette tutto il tetto, ma pure si ruppe la porta cossì di pietra come di legname dalla parte dinnanzi. E con altri pezzi della bomba rotta, il tetto dell’altra stanza, ove residevano gli tudeschi, si disfece. E s’ammirò con molto stupore, ché né il Perrone, né li tedeschi con tutte le loro famiglie ebbero danno alcuno, solamente si perdette puoco mobile. E le persone restarono intimoriti e tutte incalcinate, uscendo dalla casa mezzo ignudi per non dir dell’intutto. Anzi, s’osservò che alcuni pezzi della sudetta bomba si divisero in molte parti convicine e precipitate sul suolo [ed] essendovi molte persone assai vicine, tutte restarono illese.

 

Una bomba esplode nella chiesa di Santa Caterina, adibita a caserma dei militari austriaci, uccidendone cinque e ferendone dodici, mentre gli altri fanno razzia di mobili e suppellettili A dì [segue lacuna nella copia, ndr] Entrò altra bomba nella chiesa di Santa Caterina posta nel Borgo, nella quale esisteva il quartiero di soldati tudeschi. Ed uccise cinque di essi, con aver restato altri dodeci feriti. Bensì innanzi di questo giorno entrarono altre bombe con quantità di palle di cannoni tanto in detta chiesa, come nella Sagrestia, e pure nelle stanze dell’ospizio. Perloché tutto restò fracassato con notabile danno. Oltreché li detti soldati non solamente guastarono tutto il mobile che in esso esisteva, pure rubbarono quello che si retrovava, avendosi parimente abbruggiato li confessionarij, scabelli, pedali d’altare nella detta chiesa, scale, legnami e tutto quello che potevano aver nelle mani.

E tanto in questo presente mese di gennaro, come dal principio che gli Spagnuoli incominciarono a disparare li loro cannoni col gettito di tante bombe, seguirono molt’altri infortunij, rovine di case, quantità d’uccisi e feriti così di soldati, come cittadini. Quali non si descrivono per due ragioni: l’una - principalmente - per non aversi avuto piena notizia, tanto più che seguirono nella parte inferiore; e l’altra per non recar tedio al lettore, puotendosi affermare che non vi fu nonché strada principale, né contrada, né quartiero, pure angusto vicolo in città, che in essi non avesse seguito cosa memorabile e di palle, e bombe, con danno almeno di case.

 

Il generale Zumjungen si distingue per la condotta militare irreprensibile e per l’atteggiamento cordiale sia con gli ufficiali che col resto delle truppe Il signor generale Zumjunghen, comandante in questa per li tedeschi, qual resideva nel convento di San Domenico, con tutto che fosse stato eretico, non tralasciava qualunque minima occasione e per il servizio Cesareo, e per restar appagati tutti gli suoi officiali con le loro truppe, demostrandosi indefesso così di giorno come di notte nell’osservare tutte le trinciere, come pure conferendosi di continuo nel Capo. Nonché dava motivo d’esser riguardato con ogni circospezione da tutte le truppe. Inoltre, non passava giorno che non avesse a tavola per commenzali più officiali con ogni splendidezza. E di più non trascurava di non tener [di tener, ndr] assidue assemblee con tutti gli officiali e generali sopra il deportamento della guerra, acciò si stasse con tutta diligenza per quello poteva succedere. Ancorché inopinatamente demostrandosi molto parziale col signor generale Vallais, col quale, trascurandosi gli altri, si tratteneva il più delle volte nel gabinetto per più ore. Poiché si diceva publicamente che, siccome esso signor generale Zumiunghen era sciente di tutto quello si trattava nel campo [spagnolo, ndr], altretanto l’opre esercitate in questa erano penetrate dalli Spagnuoli, perloché in ogni modo si doveva stare con ogni riguardo. Il che non era trascurato dal detto signor Zumiunghen, generale, anzi permetteva lui medesimo che non solo nella sua corte, anche nella sua propria stanza, in qualunque ora si puotesse giocare ed a dadi, ed a carte da tutti gli signori officiali, solo per rendersi affettionato con tutti. E finalmente si teneva corte bandita per l’officiali di Piemonte e Savoia, specialmente per il loro signor comandante Missegla, quale ogni giorno era al corteggio del sudetto signor generale, trattandosi fra loro tutti gli trattati della guerra.

 

1 febbraio 1719

Disavventura di cinque religiosi partiti da Messina a bordo d’una tartana e arrestati dagli Inglesi presso Lipari. Lo Zumjungen acconsente a farli sbarcare al Capo, ma sempre da prigionieri. Trasferiti a Napoli, tornano a Milazzo, accolti nel convento dei Domenicani Primo febraro. In questo giorno furono liberati dalle carceri, che per molto tempo patirono, cinque Padri religiosi. Tre Domenicani, uno sacerdote predicatore  e due giovani studenti, nominati: il Padre Tomaso Gritti, maltese, Fra Ludovico d’Amico e Fra Ludovico Puglisi di Messina. E due cappoccini: il padre Gerolamo di Catalabellona, sopra Palermo, con il suo compagno laico. Questi si partirono tutti da Messina, il padre Domenicano per la predica in San Domenico e li giovani per seguire lo studio in Palermo; e gli Cappuccini per conferirsi nella patria. E nel viaggio furono presi sopra una tartana dalli navi inglesi vicino l’isola di Lipari, con avere stato molto tempo sopra mare, come prigionieri, ove patirono gravissime afflizioni per non aver formalità alcuna di vivere. E nemeno ritrovarono negli inglesi - per esser molto contrarij, specialmente cogli religiosi ed ecclesiastici come Papisti - compassione almeno umana. Alla fine, disbarcati nel Capo di questa città d’ordine del signor generale Zumiunghen, comandante, a contemplazione delli Padri Domenicani e Cappuccini di questa per le tante reiterate preghiere e suppliche delli sudetti poveri religiosi, stante che - tanto per li patimenti sofferti, come per esser malvisti dalli inglesi - senz’alcun dubio avrebbero sopra la nave morto. Onde se si tolsero dalle mali operazioni dell’inglesi, restarono nondimeno prigionieri nella ripa in detto Capo custoditi dalla guardia tedesca, commorando - e di giorno e di notte - in un povero tugurio. E non avendo modo come sostentarsi, mancandoli il cibo giornale, si fece raccolta delli sudetti Padri del loro ordine in questa e di pane e di vino, con altri comestibili per sostento delli sudetti poveri religiosi prigionieri. Anzi gli furono recate alcune coperture per non dormir la notte sul suolo scoperti. E di più il medemo signor generale tedesco, benché eretico, osservando tal miseria, oltre averli dato poche monete d’argento per carità, ordinò pure che li fosse dall’inglesi restituito tutto il loro bagaglio che tenevano, allorché furono presi, bensì si scemò nella maggior parte il puoco loro mobile col pretesto o che non lo tenevano, o che s’avesse disperso tra tanti soldati e marinari sopra la nave.

E non puotendosi ogni giorno distribuire il vitto necessario, mancando spesse volte la commodità di potersi inviare per la distanza di miglia tre ed in tempo che in questa si stava con uno spavento molto atroce, per il disparo delli cannoni e bombe dalli Spagnuoli, tanto s’adoprarono li Padri Domenicani col sudetto signor generale Zumjunghen, comandante che resideva nel loro convento, che s’ottenne che fossero tutti sudetti cinque religiosi - trattenuti sin allora da prigionieri in detto Capo - trasportati in Napoli. Ed infatti si fece la partenza sopra una nave inglese. E trascorsi alcuni giorni, di nuovo retornarono in detto Capo colla medema nave, per non averli voluto trattenere quell’eccellentissimo signor viceré nel regno. Onde ebbero il permesso di puotersi retirare in questa città, col sequestro pure delli Cappuccini nel convento di San Domenico. Venuti perciò, rassembravano tutti il simulacro della morte. E per non apparire veri scheletri si distinguevano per la sola voce, benché languemente. Ma la carità fraterna delli religiosi nel convento tanto prevalse, che fra breve li fece reavere, celebrando li due Padri - Domenicano e Cappuccino - la santa messa ogni giorno. E furono trattati con ogni loro sodisfazione, cossì nel vitto come nel manutenimento. E con tutto ciò li sudetti patimenti ed afflizioni per sì lungo tempo sofferte.

 

Bomba distrugge interamente la casa del sacerdote Impallomeni, uccidendo e ferendo gravemente ufficiali e soldati austriaci che l’occupavano Pure crepò una bomba in detto giorno nella casa del sacerdote Don Giacomo Impallomeni, nel quartiero di Gesù e Maria la Nuova, nella quale albergavano officiali tudeschi con soldati, delli quali restarono morti ed altri gravemente feriti. E benché alcuni di essi s’avessero medicato, restarono stroppiati nelle gambe. E detta casa tutta si disfece.

 

3 febbraio 1719

Si seppellisce nella chiesa di S. Gaetano o SS. Maria della Catena un capitano austriaco deceduto durante un duello A 3 febraro. Si sepellì in questo giorno il capitano tudesco (che il giorno antecedente fu ferito nel duello) nella chiesa di Santa Maria la Catena, associato da tutti gli officiali del suo regimento, fattasi un’esequie molto celebre.

 

Continua il bombardamento, danneggiando - anche con cannonate - alcuni fabbricati civili all’interno della cittadella fortificata Le bombe disparate nelle trinciere e forti delli Spagnuoli pervennero sin dentro la Cittadella. E benché non abbiano danneggiato persona alcuna, nondimeno disfecero molte case, pure per alcune palle di cannoni. Mentre dalla mattina sin alla sera, continuando ancora nella notte il disparo di molti schioppi nelle trinciere d’ambe le parti. Perloché gli poveri cittadini, che esistevano in città, non solo furono danneggiati nella demolizione delle loro case, pure restarono storditi dal rimbombo di tante cannonate. E col timore e spavento di non perire disgraziatamente.

 

4 febbraio 1719

Consiglio militare fra ufficiali A 4 febraro. In questo giorno concorsero nell’abitazione del signor generale Zumjunghen, comandante, che persisteva nel convento di San Domenico, quasi tutti gli officiali tudeschi e parte dell’italiani con tutti li signori generali nationali ed il signor comandante Missegla. Si credette che s’avesse discorso negozio di grandissima conseguenza tra detti generali, tra’ quali non mancava mai il signor Vallais, per esser molto parziale del Zumiunghen, ma non si poté penetrare cosa prefissa.

 

Proseguono i bombardamenti con morti e feriti Nemmeno cessarono in questa giornata le palle di cannoni colle bombe disparate d’una parte e l’altra, e di giorno e di notte, col fuoco continuo per tutta la notte delle scopettate vicendevolmente nelle trinciere. Perloché sieguirono molte uccisioni di soldati oltre gli feriti.

 

5 febbraio 1719

Giungono dal campo Spagnolo tre disertori: non volendosi arruolare tra le truppe austriache («non volendo prender partito») vengono inviati a Napoli con altri disertori A 5 febraro. Vennero dal campo spagnuolo tre desertori. Uno di Mursia e l’altri due d’Aragona, dell’intutto incuriosi (il che rassembrò molto stravagante) dell’oprato in detto campo. Non riferirono cosa alcuna, con tutto che fossero stati ben interrogati più volte. Perloché si conobbe che la loro taciturnità avesse processo ad industria e non come da essi s’asseriva. E benché avessero stato più giorni sequestrati con ogni placidezza, nondimeno sempre furono costanti sopra la prima relazione d’esser inscienti. Ed alla fine, non volendo prender partito, furono inviati in Napoli cogli altri desertori.

 

Approdano dalla Calabria cinque tartane cariche di viveri, venduti a caro prezzo approfittando della carestia. Proseguono i bombardamenti. Tre soldati austriaci morti nelle trincee vittime delle pietre lanciate dai mortai spagnoli Pure approdarono nel Capo cinque tartane venute da Calabria cariche di molta provisione di comestibile, condotto da particolari per lucrarsi a loro gusto. Con vendersi ogni cosa a prezzi molto esorbitanti. Ed il peggio fu che non si puoté rimediare, stante la carestia che correva in città.

Sieguirono in questo giorno alla guagliarda le palle di cannoni con le bombe contro la città, disparate dalli Spagnuoli, continuando nella notte il disparo delli schioppi nelle trinciere. E s’osservò che morirono in dette trinciere tre soldati tudeschi uccisi colle pietre disparate dalli mortari.

 

Bomba esplode all’interno del bastione di S. Maria nella cittadella fortificata. Palla di cannone proveniente dal forte «del Puracchito» distrugge la casa dell’aromatario Pietro Guerrera Inoltre una bomba crepò dentro il bastione di Santa Maria nella Cittadella. E con tutto s’avessero retrovate molte persone, nessuna di esse ebbe lesione. Altra bomba pervenne vicino il convento di San Domenico e non crepò, avendo solamente fatto un fosso nel suolo. Altra in altro loco convicino e crepò nella strada. Oltre quelle gettate nella parte inferiore della città senza danno di persone, ma con molto sconquassamento di case, che per brevità si tralasciano. Come pure le palle di cannoni, mentionandosi una sola che diede nella casa del signor Pietro Guerrera, nel quartiero di Santa Caterina, con averla tutta dirupata in più parti. Avendosi disparata dal forte nel Purracchito, ove esiste la batteria reale delli Spagnuoli.

 

Circola la voce di un possibile trasferimento a Siracusa del Wallis, ritenuto dai Milazzesi principale responsabile dell’abbattimento delle loro case. Descrizione del carattere del Wallis, spietato nell’esercizio delle funzioni, ma in privato «affabile e senza alterigia alcuna, umanissimo nel conversare e mai rigido» Si sparse voce che il signor Vallais passerebbe nella città di Siragosa per urgenze necessarie al servizio reale. Perloché generalmente da tutti gli cittadini si pregava Sua Reale Maestà che ciò s’adempisse, poiché era riguardato con molta apprensione. E publicamente s’affermava che la desolazione di tutte le case nella città avessero successo di suo capriccio. Anzi fu necessario che gli altri signori generali ed il signor comandante tudesco condescendessero alle sue brame. Quando che il sudetto signor generale Vallais non solamente era soggetto d’ogni circospezione - e nell’esercizio militare molto sperimentato - pure affabile e senza alterigia alcuna, umanissimo nel conversare e mai rigido. Ancorché si trattassero negozij di Stato, anzi per giovare ad altri, discordava dall’opinione dell’altri signori generali. Onde se non s’avesse fatto apprendere da tutti gli abitanti per inesorabile, trattandosi di demolire case, per certo per le sue buone qualità avrebbe conseguito quelle lodi ed encomij che non si demostrarono.

 

Il comandante Missegla dispone la vendita in città di generi alimentari da lui requisiti ad alcuni milazzesi all’arrivo degli Spagnoli nella Piana Per ordine del signor comandante Missegla si principiò a vendersi nelle strade publiche, da molti vivandieri di Piemonte e Savoia, la maggior parte di quelle provisioni cossì di vino, aceto, tonnine, sarde ed altri viveri. Li quali forzatamente dal medemo furono presi da potere delli cittadini (come si descrisse) per la provisione delle sue truppe nel principio dell’imbrocco, allorché vennero in questa Piana gli Spagnuoli. Come questa vendita della roba propria delli cittadini avesse piaciuto alli medemi, specialmente agli padroni interessati senza nemeno puoter esperire le loro ragioni, si lascia alla considerazione dell’uomini prudenti.

 

A causa dell’elevato numero di soggetti ricoverati nell’ospedale militare allestito dai Piemontesi nel Duomo antico (erano ben 260) ed allo scopo di preveniere un’epidemia, vengono trasferiti a Tropea settantacinque pazienti in grado di tollerare un viaggio via mare Nell’ospidale delli Piemontesi e Savoiardi, deputato nella matrice chiesa di questa, si retrovavano duecentosessanta tra gli infermi di febre e feriti. E per l’angustia d’una sola abitazione e luogo e per il malissimo odore che in esso persisteva, non potendosi differentemente fare - con tutto che s’avesse sempre atteso con molti aromati ed odori a togliersi tal puzzore - perciò si determinò che se ne inviassero in Tropea nella Calabria settantacinque delli sudetti infermi, che puotessero viaggiare sopra mare.

 

Condizioni disumane dei soldati tedeschi, privi di ospedale. Costretti ai turni di guardia e ad un pasto misero malgrado le precarie condizioni di salute. Muoiono alcuni feriti mal assistiti Sin a questo giorno gli soldati tedeschi non hanno avuto ospedale formato. E tutti quei che esistevano - o febbricitanti o feriti - sono stati repostati confusamente in alcune casuncole terrane, con ogni scarsezza di medicamenti, senza la cura necessaria, privi di prattici e del vitto conveniente all’infermità d’ogn’uno. Anzi con dormire sul suolo ed alle volte sopra una tavola, servendoli per capezzale una pietra. Per certo che (ciò osservandosi) recavano compassione anche agli nemici, se pure alcuno ve ne fosse stato.

Ma concorrendo una epidemia pestifera, rari erano quelli che si guarivano. E giornalmente diversi rendevano il tributo colla loro morte. E benché effettivamente ciò si scorgesse, non si diede riparo conveniente e dovuto per conservarsi colla salute gli poveri soldati.

E gia[c]ché essendo in piedi non cessavano momento di travagliare, esposti sempre alle palle di cannoni ed alle bombe, entrando specialmente di guardia col timore di non esser uccisi, mangiando solamente pane con sale ed acqua. Almeno, essendo infermi con febre o feriti per alcuna disgrazia successali, avessero avuto alcun rinfresco così nel magnare, come nel trattenimento.

 

Una bomba, oltre a distruggere la casa di Ignazio Siragusa, posta sotto il convento di S. Francesco di Paola, causa la morte d’un soldato tedesco e - tra l’altro - il ferimento di Maria Capone, deceduta di lì a poco Venne disparata dalli Spagnuoli una bomba ed entrò nella casa del signor Don Ignazio Siragosa, nel quartiero di sotto il convento di San Francesco di Paola. E crepata in detta casa, oltre averla dell’intutto disfatta colla perdita di molto mobile, uccise un soldato tedesco che in essa abitava, per essere stata abitazione d’officiali tudeschi (quali per fortuna erano usciti). Ed inoltre restò senza una gamba Maria Capone, figliuola di Gaetano, che pure fra breve morì e restarono molt’altri tudeschi feriti e stroppiati.

 

6 febbraio 1719

Continuano i bombardamenti. Le razzie dei militari spingono i proprietari a murare le aperture dei fabbricati A 6 febraro. Le bombe in questo giorno eccedettero in grandissima quantità disparate dalli Spagnuoli, dal mattino sino a notte in tutta la città, non solo nella parte inferiore, pure nel Borgo. E pervennero dentro la Cittadella. E fra l’altre case dirupate e fracassate quelle di maestro Antonino La Macchia e di Maestro Filippo Lucifero nel quartiero di Santa Maria La Catena e quella di maestro Pietro Buccafusca sopra il convento di San Domenico, restando tutte e tre senza canali. Ed il peggio fu che, concorsi molti soldati, predavano tutte le porte e fenestre di legname e li travi. Perloché furono forzati li padroni di dette case (come gli altri che patirono il simile infortunio) far murare dette porte, altrimente tutte le case fra breve s’avrebbero demolite sin al suolo.

Un sacerdote riesce a sventare un saccheggio nella casa di sua proprietà Altra bomba nel giardino di Don Giacomo Jaci, sacerdote, dietro la chiesa di Santa Maria la Catena. E per non aver possuto gli tedeschi provecciarsi di cosa alcuna, per ritrovarsi senz’alberi da più tempo innanzi tagliati il sudetto giardino, per non perder infruttuosa la curiosità scassarono la casa del sudetto sacerdote di Jaci, volendo in ogni modo far guadagno col mobile d’essa casa. Bensì non li riuscette l’impresa tentata per aver venuto il padrone con molti officiali suoi confidenti. E cossì ebbe campo questi di serrarsi la porta, retiratesi gli tedeschi forzatamente per ordine delli sudetti officiali.

Numero esorbitante di cannonate nella giornata del 6 febbraio Inoltre in sudetto giorno fu così continuo il disparo delli canoni d’una parte e l’altra, oltre delli schioppi disparati nelle trinciere, con le pietre gettate specialmente la notte, che, volendosi descrivere e numerare, rassembra l’iperbole. E pure vi fu persona che per curiosità volse calcularle e si numerarono dalla città a 300. E quelli del nemico a 500, anzi più.

Avvertenza dell’autore sulle cannonate degli altri giorni di febbraio E per non tediarsi il lettore, per tutto detto mese di febraro trascrurerò di fare menzione delli cannoni disparati in ogni giorno d’ambedue le parti, puotendosi avertare che mai cessò il disparo di detti cannoni, alle volte più ed altre volte meno, ma sempre col numero descritto. Solamente mi adoprerò raccontare la specialità d’ogni accidente successo per causa del disparo delli cannoni e bombe dalli Spagnuoli disparati nella città.

Giungono da Napoli uomini e munizioni Approdarono nel Capo molte tartane ed una nominata li Tre Santi Maggi, venuta da Napoli col carico di molte provisioni di guerra. E condussero pure da duemila soldati tedeschi con li loro officiali per guernizione della città.

 
Gli Spagnoli tentano di aprire una breccia a Porta Messina.
L'avvenimento, narrato dal Barca alla data del 10 febbraio 1719,
riportato anche in Avisi Italiani ordinari e straordinarii dell'anno 1719,
Vienna, appresso Gio. Van Ghelen



7 febbraio 1719

Continuano i danni ai fabbricati civili da parte di bombe e palle di cannone. Una bomba raggiunge la chiesa dell’Immacolata al Borgo, «sopra il Monte». S’imbarcano al Capo per Tropea 97 soldati piemontesi infermi, fino ad allora in cura presso l’ospedale allestito nel Duomo antico. Ma uno di essi muore lungo il tragitto A 7 febraro. Non cessarono le bombe come al solito e, fra l’altre, una diede dietro la casa del signor Pietro Guerrera nel quartiero di Santa Maria la Catena, sopra il Monte, e non crepò. Inoltre una palla di cannone disparata dal forte del Purracchito, nella batteria reale, entrò nella casa del detto signor di Guerrera e perforò tre mura, sconquassando una fenestra ed una porta di camera in detta casa. Altra diede in un muro della casa del fu Matteo Aricò sotto le mura della Cittadella e, con tal occasione dalli soldati tedeschi si dirupò detta casa sino dalli pedamenti, solo per rubbar li legna di detta casa. Altra bomba entrò dentro la chiesa dell’Immacolata Concettione di nostra Signora Maria, sopra il Monte, nella quale residevano alcuni soldati tedeschi ammalati. E pure tutti restarono senza danno.

Partirono sopra alcune tartane per Tropea novantasette soldati di Piemonte e Savoja, quali erano infermi nel loro Ospidale dentro la Matrice, nella Cittadella, ad effetto di curarsi. E s’osservò che uno di essi dal viaggio che fece dall’Ospedale sin al Capo per imbarcarsi, morì per la strada.

 

8 febbraio 1719

Le bombe e le pietre sparate dai mortai feriscono o uccidono militari austro-piemontesi A 8 febraro. Continuarono le bombe dalli Spagnuoli disparate nelli suoi forti e trinciere (oltre delli cannoni al solito), delle quali molte hanno crepato in aria nel Borgo, altre nella parte inferiore della città ed altre nella Cittadella. Perloché in diversi lochi si disfecero più case e molti soldati tedeschi restarono feriti, delli quali alcuni doppo morirono. Inoltre, per la quantità di mortari di pietre disparate nelle nostre trinciere fu ferito con un pezzo di pietra Giovanni Gueiulso, capitano tudesco, e di subito morì. Ed altri soldati restarono feriti.

Assalto ad imbarcazioni cariche di viveri, fascine e munizioni provenienti dalla Calabria  In questo giorno venivano da Calabria alcune tartane cariche di viveri con fascine e provisioni di guerra. E furono assaltate d’una feluga messinese corsara, ma ritrovandosi sopra una di esse dodeci granatieri tudeschi, si prepararono questi alla difesa e, lasciando avvicinare detta corsara, l’assaltarono. Perloché fu costretta retrocedere, fuggendo per non restar d’assaltante preda. E cossì tutte sudette tartane approdarono francamente nel Capo, raccontandosi che, se non si retrovavano detti dodeci soldati, tutte le tartane sarebbero state prese dalla feluga corsara.

Viveri giunti dalla Calabria venduti a prezzi esorbitanti Pure ben tardi vennero da Calabria altre imbarcazioni ben grosse ed altre picciole, carriche tutte di vettovaglie. E con tutto ciò si vendevano gli viveri di prezzo assai esorbitante, lucrandosi gli calabresi a suo talento, almeno non avessero falsato nel peso e nella misura, specialmente agli poveri soldati. Ed era necessario soffrirsi dalli cittadini, poiché erano protetti quei ladroni dalli megliori officiali tudeschi col pretesto che si provedeva del loro vitto. E li cittadini, li quali nemeno potevano far ancorché minima provisione di detti viveri se prima non erano provisti essi officiali.

Bomba distrugge chiesa del Borgo. Un mortaio da pietre austriaco esplode, uccidendo 3 cannonieri ed altri militari austriaci. Donna muore in Marina a causa d’una bomba. Una palla di cannone sparata dal Fortino della Tonnara uccide un soldato austriaco in prossimità della chiesa di S. Giuseppe. Entrò dentro la chiesa di Santa Caterina nel Borgo [odierna Badia benedettina o chiesa del SS. Salvatore, ndr] una bomba, crepò in essa e tutta la disfece.

La notte precedente, disparandosi nelle nostre trinciere fori di questa città contro gli Spagnuoli, un mortaro di pietre per disgrazia crepò e s’abbruggiarono dodeci persone. Che di subito morirono tre cannonieri e l’altri soldati tudeschi. Ed altri pure restarono feriti, delli quali alcuni doppo morirono.

Venne una bomba, fra l’altre, in casa di Francesco Maiorana, posta nel quartiero della Marina. E, con tutto che non avesse crepato, nel dare nelle mura le fracassò, cadendo quantità di pietre, colle quali fu uccisa di subito Caterina Patti e Maiorana, moglie del detto di Maiorana. E pure restò ferita Filippa Castelli, alias Nisbisa, nella testa. Che tutte due erano dentro detta casa.

Con una palla di cannone dal fortino della Tonnara fu ucciso un soldato tudesco nel quartiero del Giardinello, vicino le mura della città verso il Capo, ritrovandosi il povero soldato - innanzi la porta d’una casa in detto quartiero - che stava magnando.

 

9 febbraio 1719

Per ragioni di opportunità i comandi militari decidono di non divulgare l’esatto numero dei caduti. Militari seppelliti senza alcuna perdita di tempo in prossimità delle trincee ove rimanevano uccisi 9 febraro. Oltre il continuo fuoco di cannoni e bombe d’una parte e l’altra, nella notte seguì una batteria di scopettate da parte delli Spagnuoli con molte pietre. Perloché restarono molti uccisi ed altri feriti in dette trinciere. Ed il peggio fu che il numero delli morti, per non intimorire gli altri, non s’esplicava, ma nell’istante che morivano, dispogliati si seppellivano vicino dette trinciere.

 

10 febbraio 1719

Gli Spagnoli tentano di aprire una breccia a Porta Messina 10 febraro. Pretesero gli Spagnuoli far la breccia nella città con aver gettato dalla mattina sin a notte quantità di bombe e disparato batterie di cannonate nella porta di Messina. Perloché si retrovava tutta in terra, ma coll’accortezza e disciplina militare del signor generale Zumiunghen ed altri signori generali si diede la providenza opportuna con aversi fatto molte fossate e terrapieni, cossì di dentro come di fori delle mura di detta porta, con quantità di fascine, terra e legnami. E pure mettendosi molti cavalli di frisa per impedirsi l’entrata, facendosi travagliare gagliardamente da molti soldati con ogni sollecitudine. Ed inoltre si raddoppiarono le guardie, con aversi stato con tutta attenzione più del consueto per aversi parimente publicato che gli Spagnuoli volevano dar l’assalto generale alla città. Ed il signor generale comandante tudesco, con il signor Vallais ed altri signori generali, assistendo ancora il signor comandante Missegla, in tutto sudetto giorno sempre furono a cavallo, revedendo tutti li posti e le guardie, standosi con ogni prevenzione per quello avrebbe possuto succedere.

Notizia di un predicatore nella Piana Per aversi retrovato nella Piana dal mese di ottobre scorso il Padre lettore Fra Pietro Martire Iaci, priore di questo convento del [il testo non viene completato, ndr].

Venne da Reggio il signor Don Giuseppe D’Amico, figlio naturale di Don Pietro, il quale anni quindeci adietro, col detto signor suo padre e suoi fratelli [e] con altri gentiluomini della città, si trattiene nel Regno di Napoli ed in Calabria a servizio dell’Austissimo Imperadore. Per aversene fuggito tutti nel 1704 con altri parenti da questa città per timore di non esser trucidati dal comandante spagnuolo che reggeva a nome del Re di Spagna, per aversi demostrato molto parziali della Cesarea Maestà e stimati allora rubelli del loro re legittimo. Fu questo inviato da quel signor Governadore di Reggio a questo signor Generale Zumjungen, comandante, [ma] non si penetrò la causa e sotto li 2 del presente mese di febraro retornò in Calabria.

 

11 febbraio 1719

I Padri Cappuccini, ispirati da cattiveria e rancore nei confronti di un carmelitano scalzo teresiano da loro ospitato, fanno allontanare dal convento di Milazzo, facendoli trasferire a Napoli, altri due religiosi accusati ingiustamente d’aver fatto entrare una vecchia donna in convento. Pungente ironia del’autore, secondo il quale se fosse entrata in convento «donna vaga», piuttosto che «femina vecchia, zoppa, deforme e stomachevole», non ci sarebbe stato tanto clamore, anzi i Padri Cappuccini avrebbero persino taciuto  A 11 febraro. Da più giorni adietro avevano venuto in questa città un religioso fratello del Terzo Ordine Osservante di San Francesco d’Assisi ed altro fratello dell’ordine di Santa Teresa dalla città di Napoli. Il primo è di questo regno, e per lo spazio d’anni tredici s’ha trattenuto fori di esso, e l’altro della sudetta città di Napoli. Si trattennero in questa, pretendendo l’ultimo passar in Palermo ed il primo nell’isola di Malta. Ed in questo giorno impensatamente furono ambidue disterrati [esiliati, ndr] in Napoli ed ivi con tartane inviati e condotti.

Il motivo fu che ritrovandosi [si legga: ritrovavasi, ndr] retirato nel convento de’ Padri Cappuccini il Padre Ludovico di Santa Teresa, dell’istesso ordine, per causa che il suo convento ed ospizio era molto soggetto alle bombe e cannonate degli Spagnuoli ed inoltre per averne seguito molte bombe nel medemo ospizio e finalmente per esserli stato tolto tutto detto ospizio colla chiesa, servendo per quartiero di soldati tedeschi, con averli solamente lasciato una cameretta terrana nella quale si tratteneva un suo fratello per custodia del mobile di tutto l’ospizio. E giornalmente detto fratello, preparato il cibo per detto suo Padre Vicario, glielo inviava nel convento de’ Padri Cappuccini, ove resideva. E più delle volte era condotto il pasto dal sudetto fratello francescano, quale con l’altro carmelitano scalzo albergava in detto convento, unitamente col sudetto padre vicario. Successe che una sera, o per trascuraggine o per altra cagione, fu condotto detto cibo nel convento sudetto da un garzone sprattichissimo, qual volse esser associato [accompagnato, ndr] d’una sua zia vecchia e, pervenuti in detto convento, la detta femina, con tutto che fosse stata zoppa, per accelerare che il Padre Vicario cogli altri conseguisse il magnare con sollecitudine, entrò nella porteria del convento, pervenendo sin alle scale. Ed avrebbe asceso di sopra le stanze col nepote se non fosse stata trattenuta dalli soldati che erano acquartierati nel medemo convento cogli loro officiali. Il che, inteso dalli Padri Cappuccini, volendosi demostrare molto zelanti nella clausura, tanto s’adoprarono col signor generale Zumjunghen, comandante, che detti poveri fratelli - indebitamente e senza colpa alcuna - furono [leggasi: fossero, ndr] disterrati.

Sopra tal successo si discorse molto della poca umiltà e della grave indiscretezza delli Padri Cappuccini e non fu lodata la loro [segue vocabolo di ardua trascrizione, ndr] rustichezza, quando realmente si conobbe che li sudetti due fratelli non avevano avuto alcun participio, né intelligenza, che detta povera femina entrasse nel convento de’ detti Padri, ma solamente seguì per sua propria ignoranza. E tutte le volte la medema fosse stata inviata dal sudetto religioso fratello a condur il cibo al Padre Vicario ed agli altri per togliersi la sua fatiga, non perciò - conosciuto dalli Padri Cappuccini il grave delitto secondo il loro perspicace intendimento - si doveva da essi farsi castigare la delinquente, se pure li sembrava aver commesso delitto, giaché li fratelli non ebbero mai opinione che la femina entrasse nel purissimo loro chiostro. Affermerei che se ciò avesse seguito in donna vaga e con altra intenzione differente da quella della femina vecchia, zoppa, deforme e stomachevole, avrebbero taciuto, o per convenienza o per altro motivo. Ma per ritrovarsi tra loro molti indiscreti (per non dir tutti) pretesero far apparire il loro zelo. Bensì con evidenza si conobbe che il tutto processe per emulazione [antagonismo, ndr] del povero Padre Vicario, quale - per esser religioso di tutta bontà, vecchio ed esemplarissimo - tutte le volte che se l’imputasse cosa alcuna, gli emoli avrebbero remasto discreditati. E con puoco decoro tentarono con farse rappresentazioni almeno togliere la commodità d’esserli condotto il cibo giornale, giaché la loro intenzione era di discacciarlo dal convento assieme con detti fratelli, a contemplazione d’alcun congiunto delli sudetti Padri.

E cossì, non avendo riguardo né al proprio loro decoro di religiosi, nemeno alla coscienza, permesero, anzi furono principale causa, che seguisse il danno notabile delli sudetti due fratelli, con essere disterrati nella città di Napoli. Bensì, trascorso breve tempo, li medemi fratelli retornarono in questa città, per aversi conosciuto la loro innocenza e la mala anteposizione delli Padri Cappuccini, cossì dal viceregente di Napoli, dal quale era stato raccomandato il fratello francescano al signor Generale Zumjunghen, comandante, come dal medemo signor generale. Ed il loro retorno si descriverà in appresso.

I militari austriaci s’improvvisano commercianti, ingannando e frodando i malcapitati acquirenti milazzesi In questo giorno, come nella notte antecedente e susseguente, non si puoterono numerare le palle di cannoni e le bombe gettate dalli Spagnuoli in questa città, oltre li mortari di pietre col disparo de’ focili nelle trinciere. Specialmente di nottetempo, per essere quasi innumerabili. S’osservò bensì che li poveri abitanti, oltre la penuria sofferta da più tempo d’ogni comestibile, rassembrarono estatici e per il continuo rimbombo di cannoni e gettito di bombe, con l’evidente demolizione di tutte le loro case, e per l’imminente pericolo di restar uccisi in ogni momento. Tanto che s’avrebbe mosso a pietà anche un cuore di fiera. Ed il peggio era che gli soldati tedeschi, ancorché si vedessero scemare giornalmente e colla morte naturalmente d’infermità, e con l’uccisione o di palle di cannoni o di bombe o di pietre o di schioppi, sempre attendevano indefessi al servizio reale, ma con molta vigilanza ed industria a saper furare [rubare, ndr]. Ritrovandosi molti che a bello studio formavano due imboglietti [pacchetti, ndr] consimili di tela, reponendo in uno di essi o calsetti di seta o di lana o fazzoletti di seta, o altra cosa consimile capace in detto imboglio. E nell’altro si retrovavano molti stracci di tela, tanto che l’uno non si distingueva dell’altro. E chiamando un paesano in luogo appartato, l’offerivano se voleva comprar la robba che nell’imboglio era riposta, con demostrarla palesamente. E discordando infine sopra lo prezzo, volendo il venditore tanto più ed il compratore tanto meno, quello demostrando esser il valore di baratto. E questo non puoter più spendere, s’infingeva il primo non restar appagato di tale prezzo, allontanandosi dal secondo pochi passi. E nel camino cambiava l’imboglio che teneva in mano - colla robba osservata dal compratore - con l’altro che teneva in saccoccia nascosto pieno di stracci. Ma doppo retornato, demostrava restar contento del prezzo offerto, soggiungendo che la necessità lo costringeva a barattare la robba, quando che valeva più. E pregava al compratore che non publicasse per allora la compra, affinché osservato non fosse d’alcun suo compagno, col quale magnava nel posto e quartiero, che altrimenti scoperto doveva complimentarlo. Ed inventando molt’altre stratagemme. Per il che il compratore, restando appagato, consegnava lo prezzo concertato della robba. E, prendendosi l’imboglio con molto gusto, si divideva dal venditore, ma doppo in altro luogo o in casa, volendo demostrare la robba comprata o agli amici, o a’ congionti, restava da quelli deluso, anzi borbottato per molto semplice. Se questo avesse successo in persona d’uno, due o tre nella città avrebbe stato soffribile, ma molti e molti furono ingannati sin tanto che il negozio non si fece publico per tutta la città.

Altre frodi narrate dal Barca con anelli d’ottone, anziché d’oro Altri più perspicaci composero alcuni anelluzzi d’ottone colle sue pietrette molto pulitissimi, rassembrando d’esser d’oro finissimo nuovamente fatti. Vendendoli col prezzo proporzionato all’oro con alcun relassito [ribasso, ndr] del giusto prezzo. Ma trascorsi pochi giorni, si discopriva la frode, diventando gli anelli negri. E furono molti e molti ingannati, ancorché fossero state persone di mezzana condizione. Anzi, altri nelle strade non frequentate, osservando che passavano gli cittadini, demostravano e facevano segno d’aver ritrovato uno di detti anelletti. E convitavano gli astanti se lo volevano comprare. Al che condiscendendo questi, sembrandoli lo prezzo di molto baratto, consegnavano il denaro stabilito. Ma doppo si discopriva la frode colla delusione del compratore. E se non s’avesse publicato [divulgato, ndr] per tutta la città questa vendita d’anelluzzi, avrebbe continuato per molto tempo.

Ennesima frode dei militari ai danni di acquirenti milazzesi con stagno di Milano venduto per argento Altri più ingegnosi composero stagnetto di Milano così industriosamente formato che, alle volte unito con argento abbruggiato, ed alle volte solo assai bene raspato, publicamente lo vendevano per argento finissimo a 4, 5 e 6 tarì l’onza a diverse persone. Anzi, alcuni, previsti che non facessero tali compre, che avrebbero remasto ingannati, pure condiscesero a comprarlo. Ma doppo s’avviddero del loro proprio errore, avendosi fatto compra dalli paesani di più rotola.

Ed inoltre si vidde che molti compravano detto stagnetto raspato per argento e poscia lo revendevano alli loro compatrioti per aver alcun guadagno. Ed alla fine, conosciuta la frode, furono costretti giudizialmente li primi compratori restituire alli secondi l’integro prezzo da essi ricevuto dell’argento immaginario. E se allora non s’avesse stato colla morte su li denti s’avrebbero fatto molte risa, con darsi la baia [dar la baia, burlare, ndr] a’ detti compratori. Bensì ciò d’alcuni più arditi s’adopra.

Scippi oltre alle frodi Altri più sublimi d’ingegno si radonavano a quatriglia e frammezzandosi nelli vicoli stretti, e pure nelle strade ben larghe, ove si retrovava moltitudine e di soldati e cittadini e forastieri, specialmente nelli luoghi che si vendevano molti viveri e commestibili. Ed uno di essi, più ardito delli compagni, con la destrezza sperimentata truffava a’ molti cittadini, togliendoli dalle saccoccie e borze e fazzoletti e tabbacchieri e altro che in esse tenevano. E benché alcuni nell’istante avessero conosciuto d’esserli stata tolta la robba, non perciò la potevano recuperare, stante che il ladro con ogni sollecitudine si frameschiava tra la moltitudine delle persone; e con ogni disinvoltura si metteva innanzi al furato [derubato, ndr] il compagno del truppatore con un pezzo di pane in mano, con far segno di magnare. E con tutto che questi fosse richiesto, liberamente rispondeva che non sapeva nulla e se fosse stato pure nonché ricercato, dell’intutto spogliato, non ritrovandosi il furto di sopra si dava motivo di querelarsi gagliardamente il compagno del ladro, gettando voci da spiritato, tanto che radunandosi più e più persone era rimproverato dagli offiziali quello che era stato derubbato. E con tutto che avesse perso la robba, col motivo giustificato che il preteso ladro era stato ricercato, repertoriato e pure spogliato, senz’aversi partito dal luogo ove sortì il furto e non averlo di sopra, onde era necessario far partenza - per non soggiacere ad alcun inconveniente - senza robba chi ne fu privo.

I militari rubano infine nelle case dei Milazzesi. Ma a nulla sarebbe valso rivolgersi ai loro superiori, visto che non si sarebbe ottenuta la restituzione del maltolto Altri più arditi sfacciatamente rubbavano pure di giorno le case e quel mobile che furavano [derubavano, ndr] nell’istesso dì l’andavano vendendo in altre strade. E benché fossero stati borbottati dalli cittadini, attendevano alla vendita disinvolti, siccome avessero essercitato il mestiero di mercadanti. Anzi, dalli padroni conosciuto il loro mobile se s’avesse ricorso agli officiali maggiori per recuperarsi il tolto, la provista che di quelli si dispensava in altro non s’allargava che si conoscessero gli ladri [il provvedimento dei superiori si sarebbe limitato a conoscere i nomi dei colpevoli, ndr], allora s’avrebbe fatto la giustizia colla restituzione del mobile predato. Ed infine si tralasciano l’altre sottigliezze inventate dalli soldati per aver campo di rubbare.

Una bomba lanciata dagli Spagnoli centra la testa di un soldato austriaco nelle vicinanze della chiesa del Rosario o S. Domenico In questo giorno, fra l’altre, fu gettata una bomba dalli Spagnuoli e, sentendosi il grido, mentre che da tutti si stava osservando in qual luogo avrebbe dato poiché si scorgeva nell’aria, diede nella testa d’un povero soldato tudesco, il quale si retrovava vicino la chiesa di San Domenico, nella vinella a dirimpetto di detta chiesa, assentato sul suolo, tenendo in mano la briglia d’un cavallo, qual era d’un capitano che sentiva messa in detta chiesa. E benché non avesse crepato la bomba, il povero soldato restò col capo tutto disfatto, col celebro sparso per tutta la strada, senz’aver fatto detta bomba altro danno, con tutto che nel medemo luogo s’avesse ritrovato quantità di persone affollate. Ma solamente [la bomba, ndr] diede nel suolo con aver fatto un fosso profondo e, concorsi molti soldati, s’adoprarono a prenderla, come infatti fu presa e condotta via, nonostante che molti avessero gridato che avrebbe potuto crepare, come altre volte avea seguito colla morte di più soldati.

Altre bombe al Borgo e nella parte bassa della città Di più vi furono altre quattro bombe tutte vicino la chiesa di Santa Maria la Catena, due creparono saltando dal terreno nell’aria li pezzi e l’altre due dando nel suolo senza crepare. Furono prese dalli soldati senza timore alcuno e nessuna di esse fece danno, con tutto che s’avessero ritrovato più e più persone. Nella parte inferiore della città pure vennero più e più bombe, parte delle quali diedero nelle mura del Quartiero e della Porta di [S.] Gennaro. Ed altre in diverse case delli cittadini, che restarono tutte disfatte, non avendo bensì successo danno di persona alcuna.

Bando del viceré marchese di Lede proibisce, tra l’altro, di danneggiare i vigneti della Piana La notte antecedente sul’alba venne un desertore dal campo spagnuolo ed a mezzogiorno comparvero altri quattro soldati spagnuoli, nelli quali vi era un genovese. Riferirono tutti che il signor Marchese di Lede, vicerè spagnuolo, avesse promulgato bando che non si devastassero più le vigne delli paesani nella Piana, sotto pena della vita. Di più che sudetti paesani e tutti della Comarca portavano [portassero, ndr] quantità di commestibili a venderli nel campo. Inoltre che li medemi non s’intromettevano [s’intromettessero, ndr] nella guerra, tolti alcuni, e che s’affliggevano per la considerazione d’esser li loro concittadini e congionti soggetti alle bombe e cannonate.

Muore Caterina Scimena, uccisa a letto da una bomba lanciata dagli Spagnoli Pure entrò altra bomba in casa del sacerdote Don Francesco Li Donni, posta sotto il palazzo del signor comandante, nella quale abitavano, distintamente appartati, il signor Don Antonino Marullo de Alarcon con la signora Donna Clara sua moglie, fameglia e servitù, in una stanza. E, nell’altra, maestro Cristofaro Scimena con la moglie e fameglia. Ritrovandosi il sacerdote padrone della casa retirato nel Capo per timore come molti altri. E compiaciuta la casa al sudetto signor di Marullo per averli seguito l’infortunio d’altra bomba nella casa dove commorava col signor Don Antonio Villano (come si descrisse). La sudetta bomba entrò dal muro vicino la stanza dove abitava il Marullo e, correndo, crepò in quella dove dimorava lo Scimena. E fracassata tutta la casa uccise a Caterina sua figlia, quale si retrovava nel letto, con averli troncato tutte due le gambe. Bensì visse hore tre e doppo morì con atrocissimi dolori.

 

12 febbraio 1719

Giungono lettere ai Milazzesi dai parenti rifugiatisi a S. Lucia del Mela A 12 febraro. Venne dal campo spagnuolo un tamburro con lettere da quel signore generale a questo per trattato di cambio di soldati d’ambe le parti, qual fu di subito rimesso, con aver portato [altre] due lettere. Una dal sacerdote Don Antonio Lionti al signor Francesco suo padre colla notizia di commorare nella città di Santa Lucia, con le sue sorelle, in casa d’un loro congionto di casa Carrozza; e che nel campo passò il Padre Fra Pancrazio Lionti de’ Padri Minimi, suo fratello della terra di Sant’Angelo, per vederlo; e di più aver avute lettere dal sacerdote Don Giuseppe, altro fratello da Roma. Con passar tutti di buona salute. E l’altra della signora Donna Isabella D’Amico e Lucifero diretta al signor Dottor Don Marcello Domenico, suo marito, con la notizia che stava per partorire in detta città di Santa Lucia, ove commorava con la signora Donna Francesca, sua suocera, con li cognati; ed inoltre che s’avea venduto tutto il suo vino, con attendersi alla cultura delli stabili. Onde adeguatamente si rispose a dette lettere col medemo tamburro, ottenuta però la licenza del signor comandante Missegla.

Continua il fuoco delle artiglierie: bomba nella Sacrestia della chiesa del Rosario La notte antecedente non si puotè serrar gli occhi dalli cittadini per causa che processe nelle trinciere un fuoco continuo di più migliara di scopettate d’ambe le parti, col gettito di più bombe e di pietre, con l’uccisione d’alcuni soldati ed altri feriti. E questa mattina venne una bomba nella Sagrestia del convento di San Domenico, senz’avere crepato: disfece bensì una bancata di essa, ove diede, e s’ascrisse miracolo della Signora Maria del Rosario, che entrò in tempo che non si ritrovava in essa persona alcuna, per esser la stanza angusta, quando che di continuo era piena e di religiosi ed officiali magiori e di altri. Altra bomba venne sopra il piano di detto convento, con aver crepato in aria senz’alcun danno. Molt’altre furono gettate nella città, solamente vi fu danno di cose senza nocumento di persone. Fu continuo sino la sera il disparo di cannoni d’una parte e l’altra al numero quasi inesplicabile, non potendosi nemeno anumerare per aversi fatto da più bastioni senza intermissione alcuna.

 

13 febbraio 1719

Altra bomba in una casa d’un sacerdote A 13 febraro. Nell’alba di detto giorno una bomba diede nella casa del sacerdote Don Antonino Rizzo maggiore, posta sotto il palazzo del signor comandante. Entrò dal tetto e profondò sin al suolo, ove crepò. E per ritrovarsi molte canne e legni secchi, s’accesero, avendosi molto stentato per puoter smorzare coll’aiuto di più persone che concorsero all’infortunato. E benché s’avesse ritrovato in detta casa il sudetto sacerdote di Rizzo, assieme col sacerdote Don Francesco d’Arena e sua sorella, nepoti del Rizzo, con tutta la famiglia, nessun di essi patì danno alcuno, restando tutta la casa dirupata e la maggior parte del mobile abbruggiato.