Capitolo VII
(trascrizione a
cura di Giovanni Lo Presti, Salvatore Salmeri e Massimo Tricamo)
Continua
l’annotazione di civili morti e feriti A 21 decembre fu disparata una bomba
dal forte nel Purracchito. Diede nella casa di maestro Antonino D’Amico, posta
nel Borgo a dirimpetto della chiesa di Santa Caterina, nella quale casa si
ritrovava Giovanna, moglie del sudetto D’Amico, con molti figli e col padre
della medema. E non solamente si precipitò tutto il tetto, pure il solaro fatto
di gisso con travi, rompendosi inoltre la porta di pietre e legname d’innanzi.
E solo restò ferita la sudetta Giovanna nel piede ed offesa nelli reni, che fra
pochi giorni si guarì. E si attribuì a miracolo non avendo successo danno
notabile, poiché detto solaro si precipitò sin nel suolo in pezzi, alcuni di
più d’un cantaro.
Ed
il peggio fu che gli soldati tudeschi, osservando la casa fracassata - e quei poveri
chiedendo pietà ed aiuto affine di togliersi di sotto la fabrica, legname e
canali - principiarono a far il sacco svelatamente del mobile disfatto in detta
casa. E se non avesse inviato tutta la sua guardia il signor generale Paraith,
tedesco, qual abitava puoco distante, per certo avrebbe seguito il latrocinio.
Muore Stefano
Firmanò, colpito assieme al nipote da una palla di cannone sparata dal fortino
della Tonnara, mentre si accingevano ad andare a messa A 26 decembre. Fu disparata una palla di cannone dal
forte della Tonnara ed uccise di subito a Stefano Farmanò, marinaro. E ferì per
intiero una gamba, con parte della coscia, a Domenico Impallomeni nepote del
Farmanò. Quali si retrovavano dietro la porta della chiesa di Gesu e Maria la
Vecchia, avendosi conferito per udir la messa: e per aversi retrovato la porta
serrata della chiesa per accidente, non puoterono evitare tal infortunio,
benché avessero entrambi due osservato che nel detto fortino s’avesse dato
fuoco al cannone. Il Farmanò fu nell’istante sepolto e l’Impallomeni, doppo molto cura tagliata la
parte offesa e macellata, scampò la morte, caminando doppo molti mesi colle
stampelle ed una gamba di legno.
Colpito a morte, ai piedi del bastione di Santa Maria, un
marinaio napoletano. Ad ucciderlo, una palla di cannone sparata dal fortino
della Tonnara A dì [segue lacuna nella copia, ndr]. Un povero marinaro napolitano descendeva
dal Regio Castello e, nell’uscire che faceva dal Castello della porta di Santa
Maria sotto il bastione, restò di subito ucciso con una palla di cannone
disparata dal forte della Tonnara. E nell’istante sepolto nella chiesa di Santa
Maria la Catena.
Altra pianta sulla Battaglia di Milazzo del 15 ottobre 1718 (archivio privato)
Milazzese
rischia di perdere un braccio, ferito - sotto il forte di S. Elmo - da un
proiettile verosimilmente avvelenato sparato dal fortino della Tonnara A dì [segue
lacuna nella copia, ndr]. Ritrovandosi Vincenzo Caravello, povero tra
vagliatore, nella ripa del mare sotto il bastione di Sant’Elmo, raccogliendo
esca per pescare, fu osservato dalli Spagnuoli nella Tonnara e gli fu disparato
di mira uno schioppo, talmente che restò ferito con una palla nello braccio
destro. E benché s’avesse lui medemo tolto la palla, nondimeno stiede in cura
di Pietro Guerrera, chirurgo espertissimo, per lo spazio di quattro mesi e
puoco faltò [mancò, ndr] che non s’avesse tagliato il braccio,
per aver dato principio di cancrena. Non perciò restò offeso e si discorse che
la palla fosse stata avvelenata.
Giovanni Nobile
viene colpito, presso la chiesa di Santa Maria di Porto Salvo, da una palla di
cannone lanciata dal fortino della Tonnara. A causa dell’amputazione del
braccio muore dissanguato A dì [segue
lacuna nella copia, ndr]. Il signor
Giovanni Nobile del fu dottor Giuseppe, gentiluomo della città, sempre stiede
con molta cautela, guardandosi del disparo delli cannoni e bombe del nemico spagnuolo.
Anzi mai si partì d’innanzi la sua abitazione, qual era nel piano della chiesa
di Santa Maria di Porto Salvo dalla parte di dietro. Ed in detto giorno, la
mattina, ritrovandosi con il signor Don Antonino Lombardo di Don Saverio nel
piano, fu disparata una palla di cannone dal forte della Tonnara, avendo dato
in un muro del Palazzo di Baeli. E scagliatosi detto muro con la veemenza della
palla, si precipitò una pietra, colla quale corsa più e più passi restò ferito
detto signor di Nobile nel braccio, remasto assieme con la mano tutto macellato
e rotto. Perloché fu necessario tagliarlo il chirurgo, ma non puotendosi in
nessun modo togliere la quantità del sangue morì la notte svenato. E la mattina
seguente fu sepolto nel convento del Carmine.
Affondamento al
Capo di una barca colpita da una palla di cannone proveniente dal fortino
dell’Albero
A dì [segue lacuna nella copia, ndr]. Con una palla di cannone disparata dal
forte dell’Albero fu profondata nel mare una barca che si retrovava nella ripa
del mare, in un scaro del Capo di questa. Perloché molt’altre, osservato il
pericolo, s’allontanarono da detto scaro, volendo conservarsi illese.
Morte di un
marinaio napoletano mentre ascolta genuflesso la messa nella chiesa di San
Giacomo. Ad ucciderlo una palla di cannone proveniente dal forte di S. Giovanni
A
dì [segue lacuna nella copia, ndr]. Un povero marinaio napolitano, stando
genuflesso nella chiesa di San Giacomo udendo messa, fu disparata una palla di
cannone dal forte di San Giovanni, con aver dato in un muro dentro detta chiesa:
e con la veemenza della palla sudetta si scagliò una pietra, la quale colpì al
marinaro e di subito l’uccise. E così non uscì più dalla chiesa per esser stato
in quella sepolto.
Una bomba lanciata
dal forte di S. Giovanni centra una casa al borgo ed uccide Giuseppa Falcone e
la moglie di Vincenzo Raimondo, mentre una nipote di questi ultimi, rimasta
ferita, muore alcuni giorni dopo A dì [segue lacuna nella copia, ndr]. Fu
disparata una bomba dal forte di San Giovanni. Diede nella casa di Giuseppa
Falcone - del fu maestro Natale - posta nel Borgo, sopra il convento di San
Domenico. Ove pure con essa di Falcone albergava maestro Vincenzo Raimondo con
Rosana, sua moglie, e Giovanna, loro nepote e figlia del fu maestro Giuseppe. Ed
avendo fracassato tutta la casa, specialmente il tetto, uccise di subito alla
detta di Falcone, senza ferita alcuna, solamente colpita con un canale nelle
tempie. Come pure alla detta Rosana Raimondo, quale tutta restò fracassata nel
corpo e deformata nella faccia. Ed inoltre la sudetta di Granata [la nipote Giovanna, ndr] restò ferita in
più parti dalle pietre e canali. Le prime due morte si sepellirono di subito
nella chiesa de’ Padri Domenicani; e l’altra trasportata dall’avo nella parte
inferiore della città, ove si ricoverò per necessità. Doppo alcuni giorni pure
morì per dette ferite.
Una bomba
distrugge una conceria di pelli in prossimità del convento del Carmine, dove
viveva Antonino Lo Monaco con la famiglia, la cui figlia Flavia rimane ferita
ad una gamba curata col balsamo di Pietro Guerrera A 18 gennaro
1719. Fu gettata una bomba dal forte
nel canneto del signor Don Marcello Cirino, nella concaria [conceria, ndr] di pelli posta nel quartiero di sotto
il convento del Carmine, nella quale
abitava maestro Antonino Lo Monaco con tutta la sua fameglia. E con tutto che
avesse devastato e fracassato sudetta concaria, solamente ferì a Flavia, figlia
del detto di lo Monaco, relitta vedova del fu Giacomo Castelli, con averli
tolto tutta la polpa d’una gamba senza toccar l’ossa. Ma questa doppo fu
guarita dal signor Pietro Guerrera col suo balsamo trascorsi alcuni mesi.
Ancora morti e
feriti nell’odierna via Ryolo di Fontanelle, allora «vanella di S. Giacomo». Barca elogia l’operato dell’aromatario
Pietro Guerrera, che con un balsamo da lui preparato
medicava molti feriti, senza pretendere alcun compenso. A dì [segue lacuna nella copia, ndr]. Entrò nella casa del signor Don Giuseppe
Parra e Martino, posta nella vanella di San Giacomo vicino la chiesa di Giesù e
Maria la Nuova, una bomba, con avere crepato in detta casa, retrovandosi in
essa molte persone. E furono uccisi Giuseppe e Giovanna Sisinni, marito e
moglie, li quali abitavano nelle stanze di sotto col detto di Parra, avendo
lasciato in abbandono quelle di sopra per timore delle palle e bombe. E pure li
detti di Sisinni restarono entrambi due affissi al muro, che recarono
grandissima meraviglia a chi l’osservò. Anzi, avendo concorso a questo
spettacolo molte altre persone convicine nella detta casa, di nuovo in quella
crepò altra bomba e ferì molt’altre persone gravemente e, tra l’altre, ad
Isabella Micali e Sciala, moglie di Teodoro Sciala, con un loro figliuolo
nominato [segue lacuna nella copia, ndr] e pure un altro nepote delli sudetti. Essa
Isabella col nepote, doppo aversi medicato per più e più giorni colla cura del
sudetto Pietro Guerrera, si riavettero, ma il figlio, per essere stato molto
malamente colpito nel capo, per onde tutto l’osso si scompose, stiede per otto
giorni senza né aprire gli occhi, nemeno parlare. Alla fine si guarì, con
aversi levato dalla testa un solo pezzetto d’osso, quando che tutto il cranio
era macellato, avendosi bensì medicato per lo spazio di mesi tre continui sotto
la cura del medemo di Guerrera col suo balsamo.
Il
quale in tutta questa guerra, col grande suo studio e con la prattica di più e
più anni, e parimente con un balsamo da esso composto, operò meraviglie, per
non dir miracoli. Poiché in tutte le ferite che medicò mai in esse fece
apparire sangue putrefatto o marcime, per virtù del suo balsamo. Per certo,
doppo la sua morte, che poi seguì nel fervore della guerra a 14 aprile 1719,
molti cittadini - o feriti o con parotide maligne, o per altre infermità -
morirono per defetto di chirurghi, non essendovi in città che esso solo. Perloché
fu lacrimata la sua morte da tutti in generale, per essere stato chiamato
refrigerio delli poveri. E con giusta ragione. Poiché non solo medicava gratis
a tutti - e principali e cittadini, e plebei - senza mercede o lucro alcuno,
pure li dispensava senza pagamento gli medicamenti. E tutti quei che andavano
alla sua speziaria, essendo il megliore aromatario della città, con ogni
liberalità somministrava agli infermi e feriti ed ova ed ogn’altra cosa
necessaria, senza pagamento alcuno. Ed il peggio è che in avvenire molto si paterà,
non essendovi chi esercita tal mestiero.
La casa di
Pietro Buccafusca
- ristrutturata dopo un primo attacco -
viene distrutta da una bomba. Sua
figlia rimane miracolosamente illesa perché
trova riparo sotto una sedia A dì [segue
lacuna nella copia, ndr]. Nella casa del menzionato maestro Pietro
Buccafusca, quale restò disfatta per la bomba che in essa crepò sotto li 6
decembre passato, perloché dal detto di Buccafusca - dal tempo che successe il
caso - s’abbandonò la detta casa. Anzi si fecero le porte per esserli state
derubate dalli tudeschi, assieme con la scala di legname, lasciandosi il
remanente del mobile. Ma, proseguendo gli soldati nella notte ad ascendere per
le fenestre in detta casa, fu forzato accommodarla ed in essa di nuovo
albergare. Ed in questo giorno di nuovo entrò altra bomba nella medema casa,
nella quale per accidente si retrovava solamente una sua figliuola nomata [lacuna nella copia, ndr]. E crepata la
bomba si disfece il tetto, ma per fortuna retrovandosi uno stipo di notaro con
tutte le scritture publiche poste per conservarsi, nel precipitarsi a terra
detto stipo, per causa di detta bomba, diede sopra una sedia, la quale servì di
riparo alla povera figliuola che si retrovava di sotto, tanto che restò illesa.
Altrimente sarebbe stata uccisa dalli canali e legnami che si precipitarono
tutti a terra. Bensì fu vuopo dissotterrarla semiviva da detto luogo con alcuno
travaglio.
Bomba lanciata
dal forte del “Purracchito” distrugge la casa del sacerdote Andrea La Rosa, in
prossimità del bastione di S. Maria, dove alloggiavano civili e militari rimasti
tuttavia illesi A
dì [segue lacuna nella copia, ndr]. Altra bomba disparata dal forte nel
Purracchito entrò su l’alba in casa del sacerdote Don Andrea La Rosa, posta nel
quartiero di sotto il bastione di Santa Maria, nella quale albergava maestro Francesco
Perrone in una stanza ed in un’altra molti tedeschi colle mogli e servitù. Ed
avendo crepato la bomba nella stanza del Perrone, ove allora giaceva questi con
la moglie e quattro figli tutti in tre letti, non solamente cadette tutto il
tetto, ma pure si ruppe la porta cossì di pietra come di legname dalla parte
dinnanzi. E con altri pezzi della bomba rotta, il tetto dell’altra stanza, ove
residevano gli tudeschi, si disfece. E s’ammirò con molto stupore, ché né il
Perrone, né li tedeschi con tutte le loro famiglie ebbero danno alcuno,
solamente si perdette puoco mobile. E le persone restarono intimoriti e tutte
incalcinate, uscendo dalla casa mezzo ignudi per non dir dell’intutto. Anzi, s’osservò
che alcuni pezzi della sudetta bomba si divisero in molte parti convicine e
precipitate sul suolo [ed] essendovi molte persone assai vicine, tutte
restarono illese.
Una bomba esplode nella chiesa di Santa
Caterina, adibita a caserma dei militari austriaci, uccidendone cinque e
ferendone dodici, mentre gli altri fanno razzia di mobili e suppellettili A
dì [segue lacuna nella copia, ndr] Entrò altra bomba nella chiesa di Santa
Caterina posta nel Borgo, nella quale esisteva il quartiero di soldati tudeschi.
Ed uccise cinque di essi, con aver restato altri dodeci feriti. Bensì innanzi
di questo giorno entrarono altre bombe con quantità di palle di cannoni tanto
in detta chiesa, come nella Sagrestia, e pure nelle stanze dell’ospizio. Perloché
tutto restò fracassato con notabile danno. Oltreché li detti soldati non
solamente guastarono tutto il mobile che in esso esisteva, pure rubbarono
quello che si retrovava, avendosi parimente abbruggiato li confessionarij,
scabelli, pedali d’altare nella detta chiesa, scale, legnami e tutto quello che
potevano aver nelle mani.
E
tanto in questo presente mese di gennaro, come dal principio che gli Spagnuoli
incominciarono a disparare li loro cannoni col gettito di tante bombe,
seguirono molt’altri infortunij, rovine di case, quantità d’uccisi e feriti
così di soldati, come cittadini. Quali non si descrivono per due ragioni: l’una
- principalmente - per non aversi avuto piena notizia, tanto più che seguirono
nella parte inferiore; e l’altra per non recar tedio al lettore, puotendosi
affermare che non vi fu nonché strada principale, né contrada, né quartiero,
pure angusto vicolo in città, che in essi non avesse seguito cosa memorabile e
di palle, e bombe, con danno almeno di case.
Il generale Zumjungen si distingue per la condotta militare irreprensibile e per l’atteggiamento cordiale sia con gli ufficiali che
col resto delle truppe Il signor generale Zumjunghen, comandante in questa
per li tedeschi, qual resideva nel convento di San Domenico, con tutto che
fosse stato eretico, non tralasciava qualunque minima occasione e per il
servizio Cesareo, e per restar appagati tutti gli suoi officiali con le loro
truppe, demostrandosi indefesso così di giorno come di notte nell’osservare
tutte le trinciere, come pure conferendosi di continuo nel Capo. Nonché dava
motivo d’esser riguardato con ogni circospezione da tutte le truppe. Inoltre,
non passava giorno che non avesse a tavola per commenzali più officiali con
ogni splendidezza. E di più non trascurava di non tener [di tener, ndr] assidue assemblee con tutti gli officiali e generali
sopra il deportamento della guerra, acciò si stasse con tutta diligenza per
quello poteva succedere. Ancorché inopinatamente demostrandosi molto parziale
col signor generale Vallais, col quale, trascurandosi gli altri, si tratteneva
il più delle volte nel gabinetto per più ore. Poiché si diceva publicamente che,
siccome esso signor generale Zumiunghen era sciente di tutto quello si trattava
nel campo [spagnolo, ndr], altretanto
l’opre esercitate in questa erano penetrate dalli Spagnuoli, perloché in ogni
modo si doveva stare con ogni riguardo. Il che non era trascurato dal detto
signor Zumiunghen, generale, anzi permetteva lui medesimo che non solo nella
sua corte, anche nella sua propria stanza, in qualunque ora si puotesse giocare
ed a dadi, ed a carte da tutti gli signori officiali, solo per rendersi
affettionato con tutti. E finalmente si teneva corte bandita per l’officiali di
Piemonte e Savoia, specialmente per il loro signor comandante Missegla, quale
ogni giorno era al corteggio del sudetto signor generale, trattandosi fra loro
tutti gli trattati della guerra.
1 febbraio 1719
Disavventura di
cinque religiosi
partiti da Messina a bordo d’una tartana e arrestati dagli Inglesi presso Lipari. Lo Zumjungen acconsente a farli
sbarcare al Capo, ma sempre da prigionieri. Trasferiti a Napoli, tornano a
Milazzo, accolti nel convento dei Domenicani Primo febraro. In questo
giorno furono liberati dalle carceri, che per molto tempo patirono, cinque Padri
religiosi. Tre Domenicani, uno sacerdote predicatore e due giovani studenti, nominati: il Padre
Tomaso Gritti, maltese, Fra Ludovico d’Amico e Fra Ludovico Puglisi di Messina.
E due cappoccini: il padre Gerolamo di Catalabellona, sopra Palermo, con il suo
compagno laico. Questi si partirono tutti da Messina, il padre Domenicano per
la predica in San Domenico e li giovani per seguire lo studio in Palermo; e gli
Cappuccini per conferirsi nella patria. E nel viaggio furono presi sopra una tartana
dalli navi inglesi vicino l’isola di Lipari, con avere stato molto tempo sopra
mare, come prigionieri, ove patirono gravissime afflizioni per non aver
formalità alcuna di vivere. E nemeno ritrovarono negli inglesi - per esser
molto contrarij, specialmente cogli religiosi ed ecclesiastici come Papisti -
compassione almeno umana. Alla fine, disbarcati nel Capo di questa città
d’ordine del signor generale Zumiunghen, comandante, a contemplazione delli Padri
Domenicani e Cappuccini di questa per le tante reiterate preghiere e suppliche
delli sudetti poveri religiosi, stante che - tanto per li patimenti sofferti,
come per esser malvisti dalli inglesi - senz’alcun dubio avrebbero sopra la
nave morto. Onde se si tolsero dalle mali operazioni dell’inglesi, restarono
nondimeno prigionieri nella ripa in detto Capo custoditi dalla guardia tedesca,
commorando - e di giorno e di notte - in un povero tugurio. E non avendo modo
come sostentarsi, mancandoli il cibo giornale, si fece raccolta delli sudetti Padri
del loro ordine in questa e di pane e di vino, con altri comestibili per
sostento delli sudetti poveri religiosi prigionieri. Anzi gli furono recate
alcune coperture per non dormir la notte sul suolo scoperti. E di più il medemo
signor generale tedesco, benché eretico, osservando tal miseria, oltre averli
dato poche monete d’argento per carità, ordinò pure che li fosse dall’inglesi
restituito tutto il loro bagaglio che tenevano, allorché furono presi, bensì si
scemò nella maggior parte il puoco loro mobile col pretesto o che non lo
tenevano, o che s’avesse disperso tra tanti soldati e marinari sopra la nave.
E
non puotendosi ogni giorno distribuire il vitto necessario, mancando spesse
volte la commodità di potersi inviare per la distanza di miglia tre ed in tempo
che in questa si stava con uno spavento molto atroce, per il disparo delli
cannoni e bombe dalli Spagnuoli, tanto s’adoprarono li Padri Domenicani col
sudetto signor generale Zumjunghen, comandante che resideva nel loro convento,
che s’ottenne che fossero tutti sudetti cinque religiosi - trattenuti sin
allora da prigionieri in detto Capo - trasportati in Napoli. Ed infatti si fece
la partenza sopra una nave inglese. E trascorsi alcuni giorni, di nuovo
retornarono in detto Capo colla medema nave, per non averli voluto trattenere
quell’eccellentissimo signor viceré nel regno. Onde ebbero il permesso di
puotersi retirare in questa città, col sequestro pure delli Cappuccini nel
convento di San Domenico. Venuti perciò, rassembravano tutti il simulacro della
morte. E per non apparire veri scheletri si distinguevano per la sola voce,
benché languemente. Ma la carità fraterna delli religiosi nel convento tanto
prevalse, che fra breve li fece reavere, celebrando li due Padri - Domenicano e
Cappuccino - la santa messa ogni giorno. E furono trattati con ogni loro
sodisfazione, cossì nel vitto come nel manutenimento. E con tutto ciò li
sudetti patimenti ed afflizioni per sì lungo tempo sofferte.
Bomba distrugge
interamente la casa del sacerdote Impallomeni, uccidendo e ferendo gravemente
ufficiali e soldati austriaci che l’occupavano Pure crepò una bomba in detto giorno nella
casa del sacerdote Don Giacomo Impallomeni, nel quartiero di Gesù e Maria la Nuova,
nella quale albergavano officiali tudeschi con soldati, delli quali restarono
morti ed altri gravemente feriti. E benché alcuni di essi s’avessero medicato,
restarono stroppiati nelle gambe. E detta casa tutta si disfece.
3 febbraio 1719
Si seppellisce
nella chiesa di S. Gaetano o SS. Maria della Catena un capitano austriaco
deceduto durante un duello A 3 febraro. Si
sepellì in questo giorno il capitano tudesco (che il giorno antecedente fu
ferito nel duello) nella chiesa di Santa Maria la Catena, associato da tutti
gli officiali del suo regimento, fattasi un’esequie molto celebre.
Continua il
bombardamento, danneggiando - anche con cannonate - alcuni fabbricati civili
all’interno della cittadella fortificata Le bombe disparate nelle
trinciere e forti delli Spagnuoli pervennero sin dentro la Cittadella. E benché
non abbiano danneggiato persona alcuna, nondimeno disfecero molte case, pure
per alcune palle di cannoni. Mentre dalla mattina sin alla sera, continuando
ancora nella notte il disparo di molti schioppi nelle trinciere d’ambe le parti.
Perloché gli poveri cittadini, che esistevano in città, non solo furono
danneggiati nella demolizione delle loro case, pure restarono storditi dal
rimbombo di tante cannonate. E col timore e spavento di non perire
disgraziatamente.
4 febbraio 1719
Consiglio
militare fra ufficiali A 4 febraro. In
questo giorno concorsero nell’abitazione del signor generale Zumjunghen,
comandante, che persisteva nel convento di San Domenico, quasi tutti gli
officiali tudeschi e parte dell’italiani con tutti li signori generali
nationali ed il signor comandante Missegla. Si credette che s’avesse discorso
negozio di grandissima conseguenza tra detti generali, tra’ quali non mancava
mai il signor Vallais, per esser molto parziale del Zumiunghen, ma non si poté
penetrare cosa prefissa.
Proseguono i bombardamenti con morti e feriti
Nemmeno cessarono in questa giornata le palle di cannoni colle bombe disparate
d’una parte e l’altra, e di giorno e di notte, col fuoco continuo per tutta la
notte delle scopettate vicendevolmente nelle trinciere. Perloché sieguirono
molte uccisioni di soldati oltre gli feriti.
5 febbraio 1719
Giungono dal
campo Spagnolo tre disertori: non volendosi arruolare tra le truppe austriache
(«non volendo prender partito») vengono inviati a Napoli con altri disertori A 5 febraro. Vennero dal campo spagnuolo tre
desertori. Uno di Mursia e l’altri due d’Aragona, dell’intutto incuriosi (il
che rassembrò molto stravagante) dell’oprato in detto campo. Non riferirono
cosa alcuna, con tutto che fossero stati ben interrogati più volte. Perloché si
conobbe che la loro taciturnità avesse processo ad industria e non come da essi
s’asseriva. E benché avessero stato più giorni sequestrati con ogni placidezza,
nondimeno sempre furono costanti sopra la prima relazione d’esser inscienti. Ed
alla fine, non volendo prender partito, furono inviati in Napoli cogli altri
desertori.
Approdano dalla
Calabria cinque tartane cariche di viveri, venduti a caro prezzo approfittando
della carestia. Proseguono i bombardamenti. Tre soldati austriaci morti nelle
trincee vittime delle pietre lanciate dai mortai spagnoli Pure
approdarono nel Capo cinque tartane venute da Calabria cariche di molta
provisione di comestibile, condotto da particolari per lucrarsi a loro gusto. Con
vendersi ogni cosa a prezzi molto esorbitanti. Ed il peggio fu che non si puoté
rimediare, stante la carestia che correva in città.
Sieguirono
in questo giorno alla guagliarda le palle di cannoni con le bombe contro la
città, disparate dalli Spagnuoli, continuando nella notte il disparo delli
schioppi nelle trinciere. E s’osservò che morirono in dette trinciere tre
soldati tudeschi uccisi colle pietre disparate dalli mortari.
Bomba esplode
all’interno del bastione di S. Maria nella cittadella fortificata. Palla di
cannone proveniente dal forte «del Puracchito» distrugge la casa dell’aromatario
Pietro Guerrera
Inoltre una bomba crepò dentro il bastione di Santa Maria nella Cittadella. E
con tutto s’avessero retrovate molte persone, nessuna di esse ebbe lesione.
Altra bomba pervenne vicino il convento di San Domenico e non crepò, avendo
solamente fatto un fosso nel suolo. Altra in altro loco convicino e crepò nella
strada. Oltre quelle gettate nella parte inferiore della città senza danno di
persone, ma con molto sconquassamento di case, che per brevità si tralasciano.
Come pure le palle di cannoni, mentionandosi una sola che diede nella casa del
signor Pietro Guerrera, nel quartiero di Santa Caterina, con averla tutta
dirupata in più parti. Avendosi disparata dal forte nel Purracchito, ove esiste
la batteria reale delli Spagnuoli.
Circola la voce
di un possibile trasferimento a Siracusa del
Wallis, ritenuto dai Milazzesi principale responsabile dell’abbattimento delle
loro case. Descrizione del carattere del Wallis, spietato nell’esercizio delle
funzioni, ma in privato «affabile e senza alterigia alcuna, umanissimo nel
conversare e mai rigido» Si sparse voce che il signor Vallais passerebbe
nella città di Siragosa per urgenze necessarie al servizio reale. Perloché
generalmente da tutti gli cittadini si pregava Sua Reale Maestà che ciò
s’adempisse, poiché era riguardato con molta apprensione. E publicamente
s’affermava che la desolazione di tutte le case nella città avessero successo
di suo capriccio. Anzi fu necessario che gli altri signori generali ed il
signor comandante tudesco condescendessero alle sue brame. Quando che il
sudetto signor generale Vallais non solamente era soggetto d’ogni circospezione
- e nell’esercizio militare molto sperimentato - pure affabile e senza
alterigia alcuna, umanissimo nel conversare e mai rigido. Ancorché si
trattassero negozij di Stato, anzi per giovare ad altri, discordava
dall’opinione dell’altri signori generali. Onde se non s’avesse fatto
apprendere da tutti gli abitanti per inesorabile, trattandosi di demolire case,
per certo per le sue buone qualità avrebbe conseguito quelle lodi ed encomij
che non si demostrarono.
Il comandante Missegla
dispone la vendita in città di generi alimentari da lui requisiti ad alcuni
milazzesi all’arrivo degli Spagnoli nella Piana Per ordine del
signor comandante Missegla si principiò a vendersi nelle strade publiche, da
molti vivandieri di Piemonte e Savoia, la maggior parte di quelle provisioni
cossì di vino, aceto, tonnine, sarde ed altri viveri. Li quali forzatamente dal
medemo furono presi da potere delli cittadini (come si descrisse) per la
provisione delle sue truppe nel principio dell’imbrocco, allorché vennero in
questa Piana gli Spagnuoli. Come questa vendita della roba propria delli
cittadini avesse piaciuto alli medemi, specialmente agli padroni interessati
senza nemeno puoter esperire le loro ragioni, si lascia alla considerazione
dell’uomini prudenti.
A causa dell’elevato
numero di soggetti ricoverati nell’ospedale militare allestito dai Piemontesi nel
Duomo
antico (erano ben 260) ed allo scopo di
preveniere un’epidemia, vengono trasferiti a Tropea settantacinque pazienti in
grado di tollerare un viaggio via mare Nell’ospidale delli Piemontesi e
Savoiardi, deputato nella matrice chiesa di questa, si retrovavano duecentosessanta
tra gli infermi di febre e feriti. E per l’angustia d’una sola abitazione e
luogo e per il malissimo odore che in esso persisteva, non potendosi
differentemente fare - con tutto che s’avesse sempre atteso con molti aromati
ed odori a togliersi tal puzzore - perciò si determinò che se ne inviassero in
Tropea nella Calabria settantacinque delli sudetti infermi, che puotessero
viaggiare sopra mare.
Condizioni
disumane dei soldati tedeschi, privi di ospedale. Costretti ai turni di guardia
e ad un pasto misero malgrado le precarie condizioni di salute. Muoiono alcuni
feriti mal assistiti
Sin a questo giorno gli soldati tedeschi non hanno avuto ospedale formato. E tutti
quei che esistevano - o febbricitanti o feriti - sono stati repostati
confusamente in alcune casuncole terrane, con ogni scarsezza di medicamenti,
senza la cura necessaria, privi di prattici e del vitto conveniente
all’infermità d’ogn’uno. Anzi con dormire sul suolo ed alle volte sopra una
tavola, servendoli per capezzale una pietra. Per certo che (ciò osservandosi)
recavano compassione anche agli nemici, se pure alcuno ve ne fosse stato.
Ma
concorrendo una epidemia pestifera, rari erano quelli che si guarivano. E giornalmente
diversi rendevano il tributo colla loro morte. E benché effettivamente ciò si
scorgesse, non si diede riparo conveniente e dovuto per conservarsi colla
salute gli poveri soldati.
E
gia[c]ché essendo in piedi non cessavano momento di travagliare, esposti sempre
alle palle di cannoni ed alle bombe, entrando specialmente di guardia col
timore di non esser uccisi, mangiando solamente pane con sale ed acqua. Almeno,
essendo infermi con febre o feriti per alcuna disgrazia successali, avessero
avuto alcun rinfresco così nel magnare, come nel trattenimento.
Una bomba, oltre
a distruggere la casa di Ignazio Siragusa, posta sotto il convento di S.
Francesco di Paola, causa la morte d’un soldato tedesco e - tra l’altro - il
ferimento di Maria Capone, deceduta di lì a poco Venne disparata
dalli Spagnuoli una bomba ed entrò nella casa del signor Don Ignazio Siragosa,
nel quartiero di sotto il convento di San Francesco di Paola. E crepata in
detta casa, oltre averla dell’intutto disfatta colla perdita di molto mobile,
uccise un soldato tedesco che in essa abitava, per essere stata abitazione
d’officiali tudeschi (quali per fortuna erano usciti). Ed inoltre restò senza
una gamba Maria Capone, figliuola di Gaetano, che pure fra breve morì e
restarono molt’altri tudeschi feriti e stroppiati.
6 febbraio 1719
Continuano i bombardamenti. Le razzie dei militari
spingono i proprietari a murare le aperture dei fabbricati A 6 febraro. Le
bombe in questo giorno eccedettero in grandissima quantità disparate dalli
Spagnuoli, dal mattino sino a notte in tutta la città, non solo nella parte
inferiore, pure nel Borgo. E pervennero dentro la Cittadella. E fra l’altre
case dirupate e fracassate quelle di maestro Antonino La Macchia e di Maestro
Filippo Lucifero nel quartiero di Santa Maria La Catena e quella di maestro
Pietro Buccafusca sopra il convento di San Domenico, restando tutte e tre senza
canali. Ed il peggio fu che, concorsi molti soldati, predavano tutte le porte e
fenestre di legname e li travi. Perloché furono forzati li padroni di dette
case (come gli altri che patirono il simile infortunio) far murare dette porte,
altrimente tutte le case fra breve s’avrebbero demolite sin al suolo.
Un sacerdote riesce a sventare un saccheggio nella
casa di sua proprietà
Altra bomba nel giardino di Don Giacomo Jaci, sacerdote, dietro la chiesa di
Santa Maria la Catena. E per non aver possuto gli tedeschi provecciarsi di cosa
alcuna, per ritrovarsi senz’alberi da più tempo innanzi tagliati il sudetto
giardino, per non perder infruttuosa la curiosità scassarono la casa del
sudetto sacerdote di Jaci, volendo in ogni modo far guadagno col mobile d’essa
casa. Bensì non li riuscette l’impresa tentata per aver venuto il padrone con
molti officiali suoi confidenti. E cossì ebbe campo questi di serrarsi la
porta, retiratesi gli tedeschi forzatamente per ordine delli sudetti officiali.
Numero esorbitante di cannonate nella giornata del 6
febbraio
Inoltre in sudetto giorno fu così continuo il disparo delli canoni d’una parte
e l’altra, oltre delli schioppi disparati nelle trinciere, con le pietre
gettate specialmente la notte, che, volendosi descrivere e numerare, rassembra
l’iperbole. E pure vi fu persona che per curiosità volse calcularle e si
numerarono dalla città a 300. E quelli del nemico a 500, anzi più.
Avvertenza dell’autore sulle cannonate degli altri
giorni di febbraio
E per non tediarsi il lettore, per tutto detto mese di febraro trascrurerò di
fare menzione delli cannoni disparati in ogni giorno d’ambedue le parti,
puotendosi avertare che mai cessò il disparo di detti cannoni, alle volte più ed
altre volte meno, ma sempre col numero descritto. Solamente mi adoprerò
raccontare la specialità d’ogni accidente successo per causa del disparo delli
cannoni e bombe dalli Spagnuoli disparati nella città.
Giungono da Napoli uomini e munizioni Approdarono nel
Capo molte tartane ed una nominata li Tre
Santi Maggi, venuta da Napoli col carico di molte provisioni di guerra. E
condussero pure da duemila soldati tedeschi con li loro officiali per
guernizione della città.
Gli Spagnoli tentano di aprire una breccia a Porta Messina.
L'avvenimento, narrato dal Barca alla data del 10 febbraio 1719,
riportato anche in
7 febbraio 1719
Continuano i danni ai fabbricati civili da parte di
bombe e palle di cannone. Una bomba raggiunge la chiesa dell’Immacolata al
Borgo, «sopra il Monte». S’imbarcano al Capo per Tropea 97 soldati piemontesi
infermi, fino ad allora in cura presso l’ospedale allestito nel Duomo antico.
Ma uno di essi muore lungo il tragitto A 7 febraro. Non cessarono le bombe
come al solito e, fra l’altre, una diede dietro la casa del signor Pietro
Guerrera nel quartiero di Santa Maria la Catena, sopra il Monte, e non crepò.
Inoltre una palla di cannone disparata dal forte del Purracchito, nella
batteria reale, entrò nella casa del detto signor di Guerrera e perforò tre
mura, sconquassando una fenestra ed una porta di camera in detta casa. Altra
diede in un muro della casa del fu Matteo Aricò sotto le mura della Cittadella
e, con tal occasione dalli soldati tedeschi si dirupò detta casa sino dalli
pedamenti, solo per rubbar li legna di detta casa. Altra bomba entrò dentro la
chiesa dell’Immacolata Concettione di nostra Signora Maria, sopra il Monte,
nella quale residevano alcuni soldati tedeschi ammalati. E pure tutti restarono
senza danno.
Partirono sopra
alcune tartane per Tropea novantasette soldati di Piemonte e Savoja, quali
erano infermi nel loro Ospidale dentro la Matrice, nella Cittadella, ad effetto
di curarsi. E s’osservò che uno di essi dal viaggio che fece dall’Ospedale sin
al Capo per imbarcarsi, morì per la strada.
8 febbraio 1719
Le bombe e le pietre sparate dai mortai feriscono o
uccidono militari austro-piemontesi A 8 febraro. Continuarono le bombe
dalli Spagnuoli disparate nelli suoi forti e trinciere (oltre delli cannoni al
solito), delle quali molte hanno crepato in aria nel Borgo, altre nella parte
inferiore della città ed altre nella Cittadella. Perloché in diversi lochi si
disfecero più case e molti soldati tedeschi restarono feriti, delli quali
alcuni doppo morirono. Inoltre, per la quantità di mortari di pietre disparate
nelle nostre trinciere fu ferito con un pezzo di pietra Giovanni Gueiulso,
capitano tudesco, e di subito morì. Ed altri soldati restarono feriti.
Assalto ad imbarcazioni cariche di viveri, fascine e
munizioni provenienti dalla Calabria In
questo giorno venivano da Calabria alcune tartane cariche di viveri con fascine
e provisioni di guerra. E furono assaltate d’una feluga messinese corsara, ma
ritrovandosi sopra una di esse dodeci granatieri tudeschi, si prepararono
questi alla difesa e, lasciando avvicinare detta corsara, l’assaltarono.
Perloché fu costretta retrocedere, fuggendo per non restar d’assaltante preda.
E cossì tutte sudette tartane approdarono francamente nel Capo, raccontandosi
che, se non si retrovavano detti dodeci soldati, tutte le tartane sarebbero
state prese dalla feluga corsara.
Viveri giunti dalla Calabria venduti a prezzi
esorbitanti
Pure ben tardi vennero da Calabria altre imbarcazioni ben grosse ed altre picciole,
carriche tutte di vettovaglie. E con tutto ciò si vendevano gli viveri di
prezzo assai esorbitante, lucrandosi gli calabresi a suo talento, almeno non
avessero falsato nel peso e nella misura, specialmente agli poveri soldati. Ed
era necessario soffrirsi dalli cittadini, poiché erano protetti quei ladroni
dalli megliori officiali tudeschi col pretesto che si provedeva del loro vitto.
E li cittadini, li quali nemeno potevano far ancorché minima provisione di
detti viveri se prima non erano provisti essi officiali.
Bomba distrugge chiesa del Borgo. Un mortaio da
pietre austriaco esplode, uccidendo 3 cannonieri ed altri militari austriaci.
Donna muore in Marina a causa d’una bomba. Una palla di cannone sparata dal
Fortino della Tonnara uccide un soldato austriaco in prossimità della chiesa di
S. Giuseppe. Entrò
dentro la chiesa di Santa Caterina nel Borgo [odierna Badia benedettina o chiesa del SS. Salvatore, ndr] una
bomba, crepò in essa e tutta la disfece.
La notte
precedente, disparandosi nelle nostre trinciere fori di questa città contro gli
Spagnuoli, un mortaro di pietre per disgrazia crepò e s’abbruggiarono dodeci
persone. Che di subito morirono tre cannonieri e l’altri soldati tudeschi. Ed
altri pure restarono feriti, delli quali alcuni doppo morirono.
Venne una bomba,
fra l’altre, in casa di Francesco Maiorana, posta nel quartiero della Marina.
E, con tutto che non avesse crepato, nel dare nelle mura le fracassò, cadendo
quantità di pietre, colle quali fu uccisa di subito Caterina Patti e Maiorana,
moglie del detto di Maiorana. E pure restò ferita Filippa Castelli, alias
Nisbisa, nella testa. Che tutte due erano dentro detta casa.
Con una palla di
cannone dal fortino della Tonnara fu ucciso un soldato tudesco nel quartiero
del Giardinello, vicino le mura della città verso il Capo, ritrovandosi il
povero soldato - innanzi la porta d’una casa in detto quartiero - che stava
magnando.
9 febbraio 1719
Per ragioni di opportunità i comandi militari
decidono di non divulgare l’esatto numero dei caduti. Militari seppelliti senza alcuna perdita di
tempo in prossimità delle trincee
ove rimanevano uccisi 9 febraro. Oltre il continuo fuoco di cannoni e bombe
d’una parte e l’altra, nella notte seguì una batteria di scopettate da parte
delli Spagnuoli con molte pietre. Perloché restarono molti uccisi ed altri
feriti in dette trinciere. Ed il peggio fu che il numero delli morti, per non
intimorire gli altri, non s’esplicava, ma nell’istante che morivano,
dispogliati si seppellivano vicino dette trinciere.
10 febbraio 1719
Gli Spagnoli tentano di aprire una breccia a Porta
Messina
10 febraro. Pretesero gli Spagnuoli far la breccia nella città con aver gettato
dalla mattina sin a notte quantità di bombe e disparato batterie di cannonate
nella porta di Messina. Perloché si retrovava tutta in terra, ma
coll’accortezza e disciplina militare del signor generale Zumiunghen ed altri
signori generali si diede la providenza opportuna con aversi fatto molte
fossate e terrapieni, cossì di dentro come di fori delle mura di detta porta,
con quantità di fascine, terra e legnami. E pure mettendosi molti cavalli di
frisa per impedirsi l’entrata, facendosi travagliare gagliardamente da molti
soldati con ogni sollecitudine. Ed inoltre si raddoppiarono le guardie, con
aversi stato con tutta attenzione più del consueto per aversi parimente
publicato che gli Spagnuoli volevano dar l’assalto generale alla città. Ed il
signor generale comandante tudesco, con il signor Vallais ed altri signori
generali, assistendo ancora il signor comandante Missegla, in tutto sudetto
giorno sempre furono a cavallo, revedendo tutti li posti e le guardie, standosi
con ogni prevenzione per quello avrebbe possuto succedere.
Notizia di un predicatore nella Piana Per aversi retrovato
nella Piana dal mese di ottobre scorso il Padre lettore Fra Pietro Martire
Iaci, priore di questo convento del [il
testo non viene completato, ndr].
Venne da Reggio
il signor Don Giuseppe D’Amico, figlio naturale di Don Pietro, il quale anni
quindeci adietro, col detto signor suo padre e suoi fratelli [e] con altri
gentiluomini della città, si trattiene nel Regno di Napoli ed in Calabria a
servizio dell’Austissimo Imperadore. Per aversene fuggito tutti nel 1704 con
altri parenti da questa città per timore di non esser trucidati dal comandante
spagnuolo che reggeva a nome del Re di Spagna, per aversi demostrato molto
parziali della Cesarea Maestà e stimati allora rubelli del loro re legittimo. Fu
questo inviato da quel signor Governadore di Reggio a questo signor Generale
Zumjungen, comandante, [ma] non si penetrò la causa e sotto li 2 del presente
mese di febraro retornò in Calabria.
11 febbraio 1719
I Padri Cappuccini, ispirati da cattiveria e rancore
nei confronti di un carmelitano scalzo teresiano da loro ospitato, fanno
allontanare dal convento di Milazzo, facendoli trasferire a Napoli, altri due
religiosi accusati ingiustamente d’aver fatto entrare una vecchia donna in
convento. Pungente ironia del’autore, secondo il quale se fosse entrata in
convento «donna vaga», piuttosto che «femina vecchia, zoppa, deforme e
stomachevole», non ci sarebbe stato tanto clamore, anzi i Padri Cappuccini
avrebbero persino taciuto A 11 febraro. Da
più giorni adietro avevano venuto in questa città un religioso fratello del
Terzo Ordine Osservante di San Francesco d’Assisi ed altro fratello dell’ordine
di Santa Teresa dalla città di Napoli. Il primo è di questo regno, e per lo
spazio d’anni tredici s’ha trattenuto fori di esso, e l’altro della sudetta
città di Napoli. Si trattennero in questa, pretendendo l’ultimo passar in
Palermo ed il primo nell’isola di Malta. Ed in questo giorno impensatamente
furono ambidue disterrati [esiliati,
ndr] in Napoli ed ivi con tartane inviati e condotti.
Il motivo fu che
ritrovandosi [si legga: ritrovavasi,
ndr] retirato nel convento de’ Padri Cappuccini il Padre Ludovico di Santa
Teresa, dell’istesso ordine, per causa che il suo convento ed ospizio era molto
soggetto alle bombe e cannonate degli Spagnuoli ed inoltre per averne seguito
molte bombe nel medemo ospizio e finalmente per esserli stato tolto tutto detto
ospizio colla chiesa, servendo per quartiero di soldati tedeschi, con averli
solamente lasciato una cameretta terrana nella quale si tratteneva un suo
fratello per custodia del mobile di tutto l’ospizio. E giornalmente detto
fratello, preparato il cibo per detto suo Padre Vicario, glielo inviava nel
convento de’ Padri Cappuccini, ove resideva. E più delle volte era condotto il
pasto dal sudetto fratello francescano, quale con l’altro carmelitano scalzo
albergava in detto convento, unitamente col sudetto padre vicario. Successe che
una sera, o per trascuraggine o per altra cagione, fu condotto detto cibo nel
convento sudetto da un garzone sprattichissimo, qual volse esser associato [accompagnato, ndr] d’una sua zia vecchia
e, pervenuti in detto convento, la detta femina, con tutto che fosse stata
zoppa, per accelerare che il Padre Vicario cogli altri conseguisse il magnare
con sollecitudine, entrò nella porteria del convento, pervenendo sin alle scale.
Ed avrebbe asceso di sopra le stanze col nepote se non fosse stata trattenuta
dalli soldati che erano acquartierati nel medemo convento cogli loro officiali.
Il che, inteso dalli Padri Cappuccini, volendosi demostrare molto zelanti nella
clausura, tanto s’adoprarono col signor generale Zumjunghen, comandante, che
detti poveri fratelli - indebitamente e senza colpa alcuna - furono [leggasi: fossero, ndr] disterrati.
Sopra tal
successo si discorse molto della poca umiltà e della grave indiscretezza delli
Padri Cappuccini e non fu lodata la loro
[segue vocabolo di ardua trascrizione,
ndr] rustichezza, quando realmente
si conobbe che li sudetti due fratelli non avevano avuto alcun participio, né
intelligenza, che detta povera femina entrasse nel convento de’ detti Padri, ma
solamente seguì per sua propria ignoranza. E tutte le volte la medema fosse
stata inviata dal sudetto religioso fratello a condur il cibo al Padre Vicario
ed agli altri per togliersi la sua fatiga, non perciò - conosciuto dalli Padri
Cappuccini il grave delitto secondo il loro perspicace intendimento - si doveva
da essi farsi castigare la delinquente, se pure li sembrava aver commesso delitto,
giaché li fratelli non ebbero mai opinione che la femina entrasse nel purissimo
loro chiostro. Affermerei che se ciò avesse seguito in donna vaga e con altra
intenzione differente da quella della femina vecchia, zoppa, deforme e
stomachevole, avrebbero taciuto, o per convenienza o per altro motivo. Ma per
ritrovarsi tra loro molti indiscreti (per non dir tutti) pretesero far apparire
il loro zelo. Bensì con evidenza si conobbe che il tutto processe per
emulazione [antagonismo, ndr] del
povero Padre Vicario, quale - per esser religioso di tutta bontà, vecchio ed
esemplarissimo - tutte le volte che se l’imputasse cosa alcuna, gli emoli
avrebbero remasto discreditati. E con puoco decoro tentarono con farse
rappresentazioni almeno togliere la commodità d’esserli condotto il cibo
giornale, giaché la loro intenzione era di discacciarlo dal convento assieme
con detti fratelli, a contemplazione d’alcun congiunto delli sudetti Padri.
E cossì, non
avendo riguardo né al proprio loro decoro di religiosi, nemeno alla coscienza,
permesero, anzi furono principale causa, che seguisse il danno notabile delli
sudetti due fratelli, con essere disterrati nella città di Napoli. Bensì,
trascorso breve tempo, li medemi fratelli retornarono in questa città, per
aversi conosciuto la loro innocenza e la mala anteposizione delli Padri
Cappuccini, cossì dal viceregente di Napoli, dal quale era stato raccomandato
il fratello francescano al signor Generale Zumjunghen, comandante, come dal
medemo signor generale. Ed il loro retorno si descriverà in appresso.
I militari austriaci s’improvvisano commercianti,
ingannando e frodando i malcapitati acquirenti milazzesi In questo
giorno, come nella notte antecedente e susseguente, non si puoterono numerare
le palle di cannoni e le bombe gettate dalli Spagnuoli in questa città, oltre
li mortari di pietre col disparo de’ focili nelle trinciere. Specialmente di
nottetempo, per essere quasi innumerabili. S’osservò bensì che li poveri
abitanti, oltre la penuria sofferta da più tempo d’ogni comestibile,
rassembrarono estatici e per il continuo rimbombo di cannoni e gettito di
bombe, con l’evidente demolizione di tutte le loro case, e per l’imminente
pericolo di restar uccisi in ogni momento. Tanto che s’avrebbe mosso a pietà
anche un cuore di fiera. Ed il peggio era che gli soldati tedeschi, ancorché si
vedessero scemare giornalmente e colla morte naturalmente d’infermità, e con l’uccisione
o di palle di cannoni o di bombe o di pietre o di schioppi, sempre attendevano
indefessi al servizio reale, ma con molta vigilanza ed industria a saper furare [rubare,
ndr]. Ritrovandosi molti che a bello studio formavano due imboglietti [pacchetti, ndr] consimili di tela,
reponendo in uno di essi o calsetti di seta o di lana o fazzoletti di seta, o
altra cosa consimile capace in detto imboglio. E nell’altro si retrovavano
molti stracci di tela, tanto che l’uno non si distingueva dell’altro. E chiamando
un paesano in luogo appartato, l’offerivano se voleva comprar la robba che
nell’imboglio era riposta, con demostrarla palesamente. E discordando infine
sopra lo prezzo, volendo il venditore tanto più ed il compratore tanto meno,
quello demostrando esser il valore di baratto. E questo non puoter più spendere,
s’infingeva il primo non restar appagato di tale prezzo, allontanandosi dal
secondo pochi passi. E nel camino cambiava l’imboglio che teneva in mano - colla
robba osservata dal compratore - con l’altro che teneva in saccoccia nascosto
pieno di stracci. Ma doppo retornato, demostrava restar contento del prezzo
offerto, soggiungendo che la necessità lo costringeva a barattare la robba,
quando che valeva più. E pregava al compratore che non publicasse per allora la
compra, affinché osservato non fosse d’alcun suo compagno, col quale magnava
nel posto e quartiero, che altrimenti scoperto doveva complimentarlo. Ed
inventando molt’altre stratagemme. Per il che il compratore, restando appagato,
consegnava lo prezzo concertato della robba. E, prendendosi l’imboglio con
molto gusto, si divideva dal venditore, ma doppo in altro luogo o in casa,
volendo demostrare la robba comprata o agli amici, o a’ congionti, restava da
quelli deluso, anzi borbottato per molto semplice. Se questo avesse successo in
persona d’uno, due o tre nella città avrebbe stato soffribile, ma molti e molti
furono ingannati sin tanto che il negozio non si fece publico per tutta la
città.
Altre frodi narrate dal Barca con anelli d’ottone,
anziché d’oro
Altri più perspicaci composero alcuni anelluzzi d’ottone colle sue pietrette molto
pulitissimi, rassembrando d’esser d’oro finissimo nuovamente fatti. Vendendoli
col prezzo proporzionato all’oro con alcun relassito [ribasso, ndr] del giusto prezzo. Ma trascorsi pochi giorni, si
discopriva la frode, diventando gli anelli negri. E furono molti e molti
ingannati, ancorché fossero state persone di mezzana condizione. Anzi, altri
nelle strade non frequentate, osservando che passavano gli cittadini,
demostravano e facevano segno d’aver ritrovato uno di detti anelletti. E
convitavano gli astanti se lo volevano comprare. Al che condiscendendo questi,
sembrandoli lo prezzo di molto baratto, consegnavano il denaro stabilito. Ma
doppo si discopriva la frode colla delusione del compratore. E se non s’avesse
publicato [divulgato, ndr] per tutta
la città questa vendita d’anelluzzi, avrebbe continuato per molto tempo.
Ennesima frode dei militari ai danni di acquirenti
milazzesi con stagno di Milano venduto per argento Altri più
ingegnosi composero stagnetto di Milano così industriosamente formato che, alle
volte unito con argento abbruggiato, ed alle volte solo assai bene raspato,
publicamente lo vendevano per argento finissimo a 4, 5 e 6 tarì l’onza a
diverse persone. Anzi, alcuni, previsti che non facessero tali compre, che
avrebbero remasto ingannati, pure condiscesero a comprarlo. Ma doppo
s’avviddero del loro proprio errore, avendosi fatto compra dalli paesani di più
rotola.
Ed inoltre si vidde
che molti compravano detto stagnetto raspato per argento e poscia lo
revendevano alli loro compatrioti per aver alcun guadagno. Ed alla fine,
conosciuta la frode, furono costretti giudizialmente li primi compratori restituire
alli secondi l’integro prezzo da essi ricevuto dell’argento immaginario. E se
allora non s’avesse stato colla morte su li denti s’avrebbero fatto molte risa,
con darsi la baia [dar la baia, burlare,
ndr] a’ detti compratori. Bensì ciò d’alcuni più arditi s’adopra.
Scippi oltre alle frodi Altri più
sublimi d’ingegno si radonavano a quatriglia e frammezzandosi nelli vicoli
stretti, e pure nelle strade ben larghe, ove si retrovava moltitudine e di
soldati e cittadini e forastieri, specialmente nelli luoghi che si vendevano molti
viveri e commestibili. Ed uno di essi, più ardito delli compagni, con la
destrezza sperimentata truffava a’ molti cittadini, togliendoli dalle saccoccie
e borze e fazzoletti e tabbacchieri e altro che in esse tenevano. E benché
alcuni nell’istante avessero conosciuto d’esserli stata tolta la robba, non
perciò la potevano recuperare, stante che il ladro con ogni sollecitudine si frameschiava
tra la moltitudine delle persone; e con ogni disinvoltura si metteva innanzi al
furato [derubato, ndr] il compagno
del truppatore con un pezzo di pane in mano, con far segno di magnare. E con
tutto che questi fosse richiesto, liberamente rispondeva che non sapeva nulla e
se fosse stato pure nonché ricercato, dell’intutto spogliato, non ritrovandosi
il furto di sopra si dava motivo di querelarsi gagliardamente il compagno del
ladro, gettando voci da spiritato, tanto che radunandosi più e più persone era
rimproverato dagli offiziali quello che era stato derubbato. E con tutto che
avesse perso la robba, col motivo giustificato che il preteso ladro era stato
ricercato, repertoriato e pure spogliato, senz’aversi partito dal luogo ove
sortì il furto e non averlo di sopra, onde era necessario far partenza - per
non soggiacere ad alcun inconveniente - senza robba chi ne fu privo.
I militari rubano infine nelle case dei Milazzesi.
Ma a nulla sarebbe valso rivolgersi ai loro superiori, visto che non si sarebbe
ottenuta la restituzione del maltolto Altri più arditi sfacciatamente
rubbavano pure di giorno le case e quel mobile che furavano [derubavano, ndr] nell’istesso dì
l’andavano vendendo in altre strade. E benché fossero stati borbottati dalli
cittadini, attendevano alla vendita disinvolti, siccome avessero essercitato il
mestiero di mercadanti. Anzi, dalli padroni conosciuto il loro mobile se
s’avesse ricorso agli officiali maggiori per recuperarsi il tolto, la provista
che di quelli si dispensava in altro non s’allargava che si conoscessero gli
ladri [il provvedimento dei superiori si
sarebbe limitato a conoscere i nomi dei colpevoli, ndr], allora s’avrebbe
fatto la giustizia colla restituzione del mobile predato. Ed infine si
tralasciano l’altre sottigliezze inventate dalli soldati per aver campo di
rubbare.
Una bomba lanciata dagli Spagnoli centra la testa di
un soldato austriaco nelle vicinanze della chiesa del Rosario o S. Domenico In questo
giorno, fra l’altre, fu gettata una bomba dalli Spagnuoli e, sentendosi il
grido, mentre che da tutti si stava osservando in qual luogo avrebbe dato
poiché si scorgeva nell’aria, diede nella testa d’un povero soldato tudesco, il
quale si retrovava vicino la chiesa di San Domenico, nella vinella a dirimpetto
di detta chiesa, assentato sul suolo, tenendo in mano la briglia d’un cavallo,
qual era d’un capitano che sentiva messa in detta chiesa. E benché non avesse
crepato la bomba, il povero soldato restò col capo tutto disfatto, col celebro
sparso per tutta la strada, senz’aver fatto detta bomba altro danno, con tutto
che nel medemo luogo s’avesse ritrovato quantità di persone affollate. Ma
solamente [la bomba, ndr] diede nel
suolo con aver fatto un fosso profondo e, concorsi molti soldati, s’adoprarono
a prenderla, come infatti fu presa e condotta via, nonostante che molti
avessero gridato che avrebbe potuto crepare, come altre volte avea seguito
colla morte di più soldati.
Altre bombe al Borgo e nella parte bassa della città Di più vi
furono altre quattro bombe tutte vicino la chiesa di Santa Maria la Catena, due
creparono saltando dal terreno nell’aria li pezzi e l’altre due dando nel suolo
senza crepare. Furono prese dalli soldati senza timore alcuno e nessuna di esse
fece danno, con tutto che s’avessero ritrovato più e più persone. Nella parte
inferiore della città pure vennero più e più bombe, parte delle quali diedero
nelle mura del Quartiero e della Porta di [S.] Gennaro. Ed altre in diverse
case delli cittadini, che restarono tutte disfatte, non avendo bensì successo
danno di persona alcuna.
Bando del viceré marchese di Lede proibisce, tra
l’altro, di danneggiare i vigneti della Piana La notte antecedente sul’alba
venne un desertore dal campo spagnuolo ed a mezzogiorno comparvero altri
quattro soldati spagnuoli, nelli quali vi era un genovese. Riferirono tutti che
il signor Marchese di Lede, vicerè spagnuolo, avesse promulgato bando che non
si devastassero più le vigne delli paesani nella Piana, sotto pena della vita.
Di più che sudetti paesani e tutti della Comarca portavano [portassero, ndr] quantità di
commestibili a venderli nel campo. Inoltre che li medemi non s’intromettevano [s’intromettessero, ndr] nella guerra,
tolti alcuni, e che s’affliggevano per la considerazione d’esser li loro
concittadini e congionti soggetti alle bombe e cannonate.
Muore Caterina Scimena, uccisa a letto da una bomba
lanciata dagli Spagnoli Pure entrò altra bomba in casa del sacerdote Don
Francesco Li Donni, posta sotto il palazzo del signor comandante, nella quale
abitavano, distintamente appartati, il signor Don Antonino Marullo de Alarcon
con la signora Donna Clara sua moglie, fameglia e servitù, in una stanza. E,
nell’altra, maestro Cristofaro Scimena con la moglie e fameglia. Ritrovandosi
il sacerdote padrone della casa retirato nel Capo per timore come molti altri.
E compiaciuta la casa al sudetto signor di Marullo per averli seguito
l’infortunio d’altra bomba nella casa dove commorava col signor Don Antonio
Villano (come si descrisse). La sudetta bomba entrò dal muro vicino la stanza
dove abitava il Marullo e, correndo, crepò in quella dove dimorava lo Scimena.
E fracassata tutta la casa uccise a Caterina sua figlia, quale si retrovava nel
letto, con averli troncato tutte due le gambe. Bensì visse hore tre e doppo
morì con atrocissimi dolori.
12 febbraio 1719
Giungono lettere ai Milazzesi dai parenti
rifugiatisi a S. Lucia del Mela A 12 febraro. Venne dal campo spagnuolo
un tamburro con lettere da quel signore generale a questo per trattato di
cambio di soldati d’ambe le parti, qual fu di subito rimesso, con aver portato [altre]
due lettere. Una dal sacerdote Don Antonio Lionti al signor Francesco suo padre
colla notizia di commorare nella città di Santa Lucia, con le sue sorelle, in
casa d’un loro congionto di casa Carrozza; e che nel campo passò il Padre Fra
Pancrazio Lionti de’ Padri Minimi, suo fratello della terra di Sant’Angelo, per
vederlo; e di più aver avute lettere dal sacerdote Don Giuseppe, altro fratello
da Roma. Con passar tutti di buona salute. E l’altra della signora Donna
Isabella D’Amico e Lucifero diretta al signor Dottor Don Marcello Domenico, suo
marito, con la notizia che stava per partorire in detta città di Santa Lucia,
ove commorava con la signora Donna Francesca, sua suocera, con li cognati; ed
inoltre che s’avea venduto tutto il suo vino, con attendersi alla cultura delli
stabili. Onde adeguatamente si rispose a dette lettere col medemo tamburro,
ottenuta però la licenza del signor comandante Missegla.
Continua il fuoco delle artiglierie: bomba nella
Sacrestia della chiesa del Rosario La notte antecedente non si puotè
serrar gli occhi dalli cittadini per causa che processe nelle trinciere un
fuoco continuo di più migliara di scopettate d’ambe le parti, col gettito di
più bombe e di pietre, con l’uccisione d’alcuni soldati ed altri feriti. E
questa mattina venne una bomba nella Sagrestia del convento di San Domenico,
senz’avere crepato: disfece bensì una bancata di essa, ove diede, e s’ascrisse
miracolo della Signora Maria del Rosario, che entrò in tempo che non si
ritrovava in essa persona alcuna, per esser la stanza angusta, quando che di
continuo era piena e di religiosi ed officiali magiori e di altri. Altra bomba
venne sopra il piano di detto convento, con aver crepato in aria senz’alcun
danno. Molt’altre furono gettate nella città, solamente vi fu danno di cose senza
nocumento di persone. Fu continuo sino la sera il disparo di cannoni d’una
parte e l’altra al numero quasi inesplicabile, non potendosi nemeno anumerare
per aversi fatto da più bastioni senza intermissione alcuna.
13 febbraio 1719
Altra bomba in una casa d’un sacerdote A 13 febraro.
Nell’alba di detto giorno una bomba diede nella casa del sacerdote Don Antonino
Rizzo maggiore, posta sotto il palazzo del signor comandante. Entrò dal tetto e
profondò sin al suolo, ove crepò. E per ritrovarsi molte canne e legni secchi,
s’accesero, avendosi molto stentato per puoter smorzare coll’aiuto di più
persone che concorsero all’infortunato. E benché s’avesse ritrovato in detta
casa il sudetto sacerdote di Rizzo, assieme col sacerdote Don Francesco d’Arena
e sua sorella, nepoti del Rizzo, con tutta la famiglia, nessun di essi patì
danno alcuno, restando tutta la casa dirupata e la maggior parte del mobile
abbruggiato.